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La rivolta popolare guidata dai monaci buddhisti contro il regime militar-comunista in Birmania ha portato alla ribalta le rivoluzioni non violente nate da un coinvolgimento popolare nel nome della religione nazionale. In Birmania il buddhismo, altrove altre religioni. Si pensi alla “rivoluzione del Rosario” nelle Filippine contro il dittatore Marcos, costretto a dimettersi da una folla che sventolava il Rosario e contro la quale i militari si rifiutavano di sparare (febbraio 1986); o alla “rivoluzione dei fiori” che in Corea del sud ha determinato la fine del regime militare, ispirata da buddhismo e cristianesimo nei primi anni ottanta. Lo stesso buddhismo è stato protagonista, ancora con i monaci, di rivolte popolari in Sri Lanka, Vietnam del sud e Tibet contro la colonizzazione cinese. Sono note le guerriglie e rivolte ispirate all’islam e l’enorme importanza che ha oggi l’induismo nella politica indiana con la “hindutva”, l’ideologia nazionalista indù.

Nei nostri paesi occidentali l’informazione è sempre e solo orientata ad illustrare l’economia e le forze politiche. I temi culturali e religiosi non interessano. La nostra cultura laicizzata ci impedisce di comprendere a fondo gli avvenimenti di molti paesi asiatici, oggi sempre più interessanti. Quando, a metà dell’agosto scorso, è scoppiata la rivolta popolare contro il regime militar-comunista birmano giornali e televisioni (almeno in Italia) hanno insistito sul fatto che ha scatenato la rivolta: l’aumento del prezzo della benzina e del gasolio (due-tre-quattro volte). Pochissimi hanno ricordato che quel regime, definito semplicemente “militare”, è in realtà un regime comunista di tipo staliniano. Nella sua “Costituzione”, cioè il “Programma del Partito Socialista Birmano” al potere con i militari per realizzare “la via birmana al socialismo”, tra le idee di base per costruire una società nuova si legge:

“L’uomo è il più importante di tutti gli esseri: è l’Essere Supremo. Al posto di dio (il dio di qualsiasi religione compreso Buddha come dio del buddhismo), bisogna mettere l’Uomo. La filosofia del nostro partito è una filosofia puramente mondana, non è religiosa ….. La storia dell’umanità è non solo storia di nazioni e di guerre, ma anche di lotta di classe. Il socialismo intende mettere fine a questo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’ideale del socialismo è una società prospera, ricca, fondata sulla giustizia. Non c’è posto per la carità. Noi faremo di tutto, con metodi appropriati, per eliminare atti e opere di falsa carità e assistenza sociale. Lo stato pensa a tutto. Nutrire ed educare i figli dei lavoratori sarà esclusiva responsabilità dello stato, quando ci saranno abbastanza risorse economiche. L’attività di imprese sociali fondate sul diritto di proprietà privata è contro natura e non fa che sfociare in antagonismi sociali. La proprietà dei mezzi di produzione deve essere sociale….”.

In base a questi principi, il governo ha subito abolito il riconoscimento del buddhismo come “religione di stato”, del precedente governo democratico; poi ha nazionalizzato le banche, le industrie, le piccole e medie aziende artigianali, i negozi e le terre, i giornali e le radio, gli alberghi e i ristoranti, le scuole e l’assistenza sanitaria. Scomparsa la proprietà privata, tutto è dello Stato che orienta ogni cosa al bene pubblico. Dopo un  breve periodo di opposizione dei buddhisti al “socialismo birmano” (che tentava di mettere le mani su monasteri e pagode), il regime ha lasciato sopravvivere le religioni, fino alla rivolta degli studenti nel 1988. Da allora i buddhisti sono all’opposizione.

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Quando nell’agosto 2007 i monaci hanno vinto una prima battaglia non violenta contro il regime suscitando commozione in tutto il mondo e interventi diplomatici in favore dei diritti dell’uomo, in Italia la loro partecipazione non è stata capita. Un giornale, che si distingue per il suo accanimento laicista e anti-religioso (“La Repubblica”), pur applaudendo a quelle manifestazioni ha scritto: “Avremmo preferito una rivolta nata dai partiti e sindacati di opposizione”; il che significa non conoscere la situazione birmana, dove partiti e sindacati sopravvivono solo all’estero e nei convegni internazionali!

Perché cinquant’anni di ateismo di stato (insegnato nelle scuole) non sono riusciti a sradicare il buddhismo? Ecco il tema che il nostro mondo laicizzato non riesce ad esplorare ed a comprendere. L’identità nazionale birmana comprende la lingua, la storia e naturalmente la religione e la cultura buddhista. La lezione è questa, che nei momenti di difficoltà o di decadenza di una nazione, la religione offre l’ispirazione e la spinta per superare il tempo negativo in forza di un ideale superiore e riprendere il cammino. Quando, in Italia, non poche forze intellettuali e politiche si mostrano infastidite della presenza cristiana e a volte fanno di tutto per ostacolarla e, se potessero, eliminarla, sono ciechi che guidano altri ciechi: pensano di liberare il popolo dalle “superstizioni”, invece gli distruggono l’anima profonda.

Ogni religione ha i suoi punti di forza (e di debolezza). Perché i monaci buddhisti rappresentano l’anima del popolo birmano e rimangono l’unica forza di opposizione al regime militar-comunista? Secondo un importante principio buddhista, non è possibile raggiungere il “nirvana” (lo stato definitivo di riposo inteso come soppressione del dolore) senza passare attraverso lo stato di monaco. Uno dei costumi più caratteristici del buddhismo com’è praticato in Birmania (e nei paesi del “piccolo veicolo”, l’hinayana), è che tutti i maschi e le femmine entrano in comunità di monaci o di monache una prima volta tra i 5 e i 15 anni come novizi per una o due settimane, e una seconda volta, dopo i 20 anni, per tre o più mesi: un “servizio militare volontario” che segna profondamente la vita. In monasteri birmani e thailandesi mi hanno detto che si fanno monaci per alcuni mesi anche personalità della cultura, del commercio, della politica, alla ricerca di un ideale che è la loro forza interiore. Entrando in monastero, si rasano il capo, indossano la tunica del monaco (rosso o arancione) o delle monache (rosa o giallo) ed entrano nel “sangha”, la comunità monastica che è la grande scuola pratica di buddhismo, attraverso la quale tutti (o quasi tutti) passano più volte nella vita.

L’educazione che ricevono è severa. Le regole principali sono la povertà, il celibato e la non violenza. Gli unici oggetti che un monaco  può avere sono tre pezzi di stoffa, un rasoio, qualche ago e filo, le ciabatte, una tazza, un piccolo cesto e la marmitta nella quale bollire il riso. Il monaco deve vivere esclusivamente di elemosina, mangia quello che riceve in dono e ogni mattino, in città e villaggi, si vedono piccoli gruppi di monaci giovani e anziani che visitano le famiglie, i mercati, i negozi, chiedendo l’elemosina, non in denaro, ma in cibo. I monaci non possono assistere a spettacoli, fumare o bere bevande alcoliche; dormono su una stuoia per terra, spesso per cuscino hanno solo un tarello di legno. La vita di comunità ha orari fissi per le preghiere in comune e le istruzioni religiose, una volta al mese i monaci passano la notte presso le tombe per meditare sulla vanità e transitorietà delle cose terrene. E’ facile capire perché il buddhismo riesce a trasfondere in un popolo i suoi ideali di vita e diventarne l’anima, sostenendolo in  tutta la sua storia.
Piero Gheddo
Il Timone – marzo 2008

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