Unknown photographer, Public domain, via Wikimedia Commons

Ricevo la notizia della morte di mons. Luigi Giussani mentre sono in India a visitare, in Tamil Nadu e in Andhra Pradesh, le vittime dello “tsunami” del 26 dicembre 2004. Sono molto addolorato dalla notizia giuntami per telefono, penso sia scomparsa una delle personalità religiose più significative del nostro tempo. Nei giorni precedenti la sua morte (22 febbraio 2005) gli avevo mandato una cartolina da Chennai (Madras) per dirgli che avevo pregato per lui e per Comunione e Liberazione al Santuario della Madonna di Vailankanni, “la Lourdes dell’India” con 5-6 milioni di pellegrini l’anno.

  Ho conosciuto don Giussani negli anni 1955-1958, quando, attraverso mons. Aristide Pirovano (allora vescovo di Macapà in Amazzonia brasiliana) e il dott. Marcello Candia, don Gius voleva mandare i primi volontari di GS (Gioventù Studentesca) in Amazzonia e in Brasile. Ricordo che in quei primi anni del mio sacerdozio (sono prete dal 1953), padre Giacomo Girardi, suo grande amico, e io stesso eravamo affascinati dai discorsi di don Giussni nella prima sede di G.S. in via Statuto. Ci colpiva la forza della sua fede e delle sue convinzioni, il suo insistere su Gesù Cristo al centro di tutto e sul valore della cultura per diffondere il messaggio evangelico: non la fede staccata dalla vita, come momento intimistico e privato, ma la fede che influisce su tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Ben prima del Concilio Vaticano II, Giussani insisteva sul concetto che se la fede non cambia e non umanizza la vita dell’uomo, della società, non conta nulla: se la fede in Cristo, diceva, non crea una “cultura nuova”, oltre che in noi “un uomo nuovo”, non conta nulla. Giussani metteva con forza, noi ragazzi e giovani preti, di fronte alla bellezza della fede, ma anche alla responsabilità di aver ricevuto da Dio questo dono di cui tutti hanno bisogno. Era un modo originale, appassionante, di intendere l’essere cristiano.

Ho poi sperimentato quanto don Giussani fosse aperto alla missione universale della Chiesa nei suoi rapporti con i missionari del Pime, ai quali ha orientato molte vocazioni missionarie e sacerdotali: abitava al Centro missionario Pime in via Mosè Bianchi a Milano per una ventina d’anni (1974-1993). Negli anni settanta e ottanta, in tempi di debole presenza cristiana nella società italiana, don Giussani ha appoggiato con entusiasmo e con i suoi giovani nelle veglie missionarie organizzate a Milano da padre Giacomo Girardi a nome del Centro missionario diocesano (e poi diffuse in tutta Italia) e varie campagne di opinione pubblica come quella per accogliere in Italia i “boat people” di Vietnam e Cambogia e quella per la pace in Libano. Alla fine degli anni settanta e inizio ottanta, Comunione e Liberazione si è affermata in Italia anche con questi strumenti di mobilitazione culturale e sociale, che incidevano sulla cultura popolare.

Don Giussani è figura rappresentativa dei moderni “movimenti” ecclesiali, che sono una meraviglia dello Spirito: in tempi come i nostri molto aridi e freddi nei rapporti umani, sanno suscitare entusiasmo nella fede, forte senso di appartenenza, capacità di dare testimonianze efficaci di Vangelo nella società evoluta e laicizzata.

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Non c’è dubbio che nel dopo Concilio la Chiesa è stata attraversata da una “grave crisi di fede”, come ha incominciato a dire ed a ripetere accoratamente Paolo VI dopo le drammatiche contestazioni alla sua “Humanae Vitae” (1978), che oggi appare un documento quanto mai profetico! Ho sempre pensato in quei tempi, e lo penso ancora, che i “movimenti”, con tutti i loro limiti e difetti (che sono quelli dei giovani!), sono una risposta dello Spirito alla crisi di fede che ha colpito diocesi e parrocchie, ordini e congregazioni religiose, antiche associazioni laicali cattoliche, istituti e organismi di animazione e stampa missionaria, ecc.

Conoscendo da vicino don Giussani e C.L., mi sono sempre chiesto perché il “movimento missionario”, rappresentato in Italia dal Pime e da altri istituti missionari, non riesce oggi a suscitare una rinascita forte della fede e quindi non esercita più sui giovani quel fascino, quell’entusiasmo che li renda capaci di donare la vita per Cristo e per i popoli che non conoscono Cristo. Non so dare una risposta netta a questo interrogativo, ma penso che il problema sta nella debolezza della fede: siamo tutti spesso travolti da un materialismo nefasto, dal “politicamente corretto”, da un senso errato di “dialogo interreligioso”. Eppure gli istituti missionari, e il Pime fra essi, hanno un meraviglioso bagaglio anche attuale di santità e di martirio che potrebbe portare il fuoco dell’amore a Cristo e all’uomo tra i giovani. Scrivo dall’India e ripenso a quanto diceva Madre Teresa: “La più grande disgrazia dell’India è che non conosce Gesù Cristo”. E mi chiedo: ma ci crediamo cavvero? Concludo: la vita e l’insegnamento di Giussani dovrebbero far riflettere, noi Chiesa italiana e noi missionari, sul nostro grande carisma e sulla fedeltà alla nostra vocazione missionaria.

Piero Gheddo

marzo 2005

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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