Uno dei temi più sentiti e dibattuti dai missionologi e dai missionari sul campo è come inculturare il messaggio e la vita cristiana tra i vari popoli. Nell’Occidente cristiano il tema si pensa sia superato dal fatto che abbiamo duemila anni di cristianesimo alle spalle, ma la fede va sempre contestualizzata, in ogni tempo e quindi anche nel nostro.
Nelle missioni e giovani Chiese è argomento molto attuale. Ricordo il vescovo di Warangal, mons. Alfonso Beretta del Pime (morto nel 1998), che dopo cinquant’anni di India mi diceva: «Le conversioni a Cristo sono sempre una rottura con la religione e la cultura del passato, perché tutto in quel mondo richiama le antiche credenze, riti, superstizioni, mentre la vita cristiana introduce a punti di riferimento soprannaturale e a una mentalità di fondo del tutto diversi. Il ricupero dei valori culturali locali, che sono ben radicati in ogni persona e comunità quindi praticamente incancellabili, viene in seguito, quando il battezzato ha raggiunto un certo grado di maturità di fede e di vita cristiana. È sbagliato voler forzare dall’esterno questo cammino del popolo di Dio, che richiede il suo tempo per essere autentico».
Beretta aggiungeva che mescolare riti e simboli, musiche e testi (biblici o di religioni locali) confonde le idee ai cristiani, che si sono convertiti in media da una o due generazioni. E citava ad esempio le riforme liturgiche che si stavano introducendo nella Chiesa indiana, giudicandole, in genere, preparate a tavolino; a molti vescovi parevano premature e non trovavano rispondenza nelle giovani comunità cristiane.
Ho sempre ritenuto molto sagge queste parole e le ho viste confermate nei miei viaggi missionari. Nel 1990 ho incontrato il vescovo cattolico di Kandy in Sri Lanka che aveva studiato il buddhismo alla “Buddhist University” della sua città (la capitale del buddhismo locale). Mi diceva che i testi della prima tradizione buddhista sono undici volte più lunghi dei 75 libri della Bibbia giudaico-cristiana: un mare di documenti (scritti in sanscrito e in pali) non ancora studiati criticamente né in genere tradotti in lingue moderne. Concludeva dicendo che praticamente non conosciamo il buddhismo e nemmeno lo conoscono i buddhisti, a parte poche eccezioni. Questo non toglie che la Chiesa deve inculturare fede e vita cristiana nel mondo buddhista, soprattutto sulla base di come lo vivono oggi i monaci e i fedeli. Un’opera non facile, diceva, che richiederà molto tempo, per non «inculturarci» in un buddhismo che troviamo sui testi di studio delle religioni, ma è superato dalla storia e della vita del popolo.
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Nel seminario teologico nazionale e facoltà teologica di Anyama (Costa d’Avorio) l‘abbé Kouassi, insegnante di teologia morale, mi diceva (cfr Mondo e Missione 1986, pag. 384): «Si parla molto di teologia africana, ma secondo me la cosa essenziale è vivere di Cristo: non abbiamo bisogno di parlare di teologia africana, ma di viverla. Se ne parliamo troppo, facciamo della teologia africana un assoluto ideologico e non siamo più autentici. Ci sono dei teologi africani che a tavolino inventano le formule più strane. Io dico loro: dove queste cose sono vissute dalla gente? Dove sono maturate nella coscienza del popolo cristiano? Molte vostre idee non vengono forse dai vostri maestri europei che vogliono imporre loro soluzioni?… Abbiamo bisogno di molto tempo e di tranquillità. Non sollecitateci in modo indebito. Se venite in Africa mettetevi a servizio dei nostri vescovi e della Chiesa, non imponeteci i vostri schemi e idee. La teologia africana verrà dalla vita cristiana, si imporrà da sé, non deve essere una costruzione ideologica, aprioristica, fatta a tavolino. San Tommaso non ha mai detto: adesso mi metto a scrivere la teologia occidentale, ma ha scritto quel che era maturato al suo tempo nella vita della Chiesa».
Nella Redemptoris Missio Giovanni Paolo II scrive (n. 52): «La Chiesa incarna il Vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità; trasmette ad esse i propri valori, assumendo ciò che di buono c’è in esse e rinnovandole dall’interno (…) L’inculturazione è un cammino lento, che accompagna tutta la vita missionaria e chiama in causa i vari operatori della missione ad gentes, le comunità cristiane man mano che si sviluppano, i pastori che hanno la responsabilità di discernere e stimolare la sua attuazione».
Piero Gheddo
gennaio 2006
Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)
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