Image by Javad Esmaeili from Pixabay

Parlo con un missionario italiano del Pime in Costa d’Avorio, in missione ai confini fra nord islamico e sud animista e cristiano. Mi racconta che la recente guerra civile ha danneggiato l’espansione dell’islam nel paese. Non solo, ma si sta verificando un limitato ma significativo abbandono dell’islam in seguito alla diversa immagine che hanno dato di sé la missione islamica e quella cristiana. Il capo tradizionale della cittadina in cui il missionario abita ha parlato ai suoi correligionari dicendo: “Annunzio che abbandono l’islam e divento cristiano. Nella situazione di guerra che stiamo vivendo, gli unici impegnati nell’assistenza ai profughi e alla popolazione sofferente sono i fedeli della Chiesa cattolica; noi musulmani non facciamo nulla e nelle nostre moschee si tengono le armi. Io sono un uomo di pace e divento cristiano”.

Il missionario aggiunge che quel vecchio saggio, rispettato da tutti, ha avuto il coraggio di dire chiaramente quello che molti pensano, specie i più giovani che sono attratti dalle Chiese cristiane. “Infatti, continua, il cristianesimo cresce in Costa d’Avorio. Purtroppo manchiamo drammaticamente di personale e di mezzi, ma sono convinto che proprio la vita di tutti i giorni mostra ai popoli africani la grandezza e bellezza del messaggio di Cristo e l’insufficienza dell’animismo e dell’islam per affrontare i problemi della vita moderna”.

Ritrovo un volume interessante di 25 anni fa, che a suo tempo aveva suscitato vivaci dibattiti fra gli intellettuali africani e islamici e sintetizza ancor oggi il tormento delle élites del terzo mondo di fronte all’Occidente. E’ scritto da un diplomatico musulmano della Mauritania: Ahmed Baba Miské, “Lettre ouverte aux élites du tiers-monde” (Editions Le Sycomore, Paris, 1981). Miské si dichiara deluso dell’indipendenza africana perché, dice, abbiamo voluto imitare l’Occidente e abbiamo fallito in tutte le esperienze di sviluppo tentate, in tutti i modelli realizzati: “In Africa non si trova praticamente alcuna vera riuscita nella lotta contro il sottosviluppo”. Miské pensa che i popoli islamici (come la Mauritania) avrebbero tutto quanto è necessario per una piena riuscita e propone due mete:

1) Stabilire l’autentica democrazia, cioè dare al popolo la possibilità di scegliere e di decidere quale via percorrere per uno sviluppo autonomo, diverso da quello dell’Occidente cristiano. Il pilastro centrale per questa democrazia dovrebbe essere la libertà e il dibattito: “Ogni decisione sia preceduta da una discussione approfondita a livello di ogni comunità di base e sanzionata da un consenso… La democrazia deve coltivare una virtù che gli europei hanno elevato ad un alto grado di perfezione e che è senza dubbio la loro forza principale. Si tratta di quella tensione permanente che esclude l’inazione, la pigrizia. Una curiosità costantemente sveglia, un bisogno di attività fisica o intellettuale permanente ne sono le caratteristiche…. Questa tensione è l’arma assoluta dell’Europa. Bisogna che l’acquistiamo anche noi”.

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2) I popoli arabo-africani devono ritrovare l’anima, ritornare alle loro sorgenti e in particolare alla radice della loro civiltà che è l’islam: “Ritrovare il nostro islam autentico e la fierezza di essere musulmani”. Secondo Miské, l’islam originario era ben diverso da quello attuale, una rivoluzione spirituale, politica, socio-economica. Tutti i princìpi moderni si trovano già nell’islam. I popoli islamici possono trovare in sé tutto quanto occorre al progresso dell’uomo, se rimangono uniti e se smettono di correre dietro alle novità dell’Europa (“Non diventiamo scimmie dell’Europa”).

Queste le conclusioni del volume, notevole perché denunzia con forza e in modo appassionato l’inerzia e gli errori commessi dai paesi arabo-africani dopo l’indipendenza. Ma ingenuo, perché ricade nell’illusione dei padri delle indipendenze arabo-africane negli anni cinquanta e sessanta del novecento, che bastava liberarsi dalla dominazione coloniale europea per svilupparsi secondo le culture e tradizioni locali. Adesso, dopo le delusioni del post-indipendenza, dicono che bisogna “liberarsi dal dominio culturale dell’Occidente cristiano” e ritornare all’islam originario. Giusto ritrovare le proprie radici culturali e religiose, ma questo risolve il problema della modernizzazione di quei popoli e dello sviluppo? La rivoluzione islamica di Khomeini in Iran (per portare un solo esempio), si proponeva di mettere alla base di tutto il ritorno all’islam più puro: con quali risultati sul piano della democrazia e dello sviluppo? E ancora: come si può ritornare all’islam originario, quello che tagliava la mano ai ladri, lapidava le adultere e ammetteva la poligamia? Chi stabilisce qual è l’islam più puro, quando all’interno dell’islam non c’è dibattito né autorità che possa decidere le riforme? L’islam ha dato origine ad una grande civiltà, ma poi è rimasto bloccato da una lettura del Corano non critica, non contestualizzata, non adatta al mondo moderno.

Tutto questo dimostra quanto è ancora insufficiente la riflessione delle élites del terzo mondo, islamiche in particolare, sulle radici dello sviluppo dell’Occidente: non riconoscono i valori universali che l’Occidente ha dato a tutta l’umanità e dai quali è nata la spinta allo sviluppo moderno; e meno ancora riconoscono che questi valori non vengono da nessun’altra parte che da Gesù Cristo. Le élites intellettuali ignorano o fingono di ignorare quanto è vissuto praticamente dalla gente semplice, come l’anziano saggio della Costa d’Avorio di cui s’è detto all’inizio. Gesù diceva: “Ti ringrazio, Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11, 25; Luca 10, 21).

Piero Gheddo

marzo 2006

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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