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Nel dicembre 2005, in Mali, mi è capitato di parlare un po’ a lungo con una giovane, simpatica e colta donna musulmana, terza moglie di un personaggio del mondo culturale. Me l’hanno presentata come collaboratrice in un’opera cristiana. Mi diceva che è contenta della sua situazione matrimoniale, che ha accettato perché vuol bene a suo marito dal quale ha già avuto un figlio; l’uomo può provvedere alle sue tre mogli e queste si conoscono, si incontrano e collaborano senza difficoltà. Le legge islamica permette quattro mogli e la legislazione del Mali, paese al 94% islamico, riconosce questo tipo di matrimonio, anche se va diminuendo perché non è facile oggi mantenere due-tre famiglie diverse. Ma insomma, tra i ricchi e i benestanti, come nelle campagne fra la gente più semplice, la poligamia è ancora praticata e riconosciuta come fatto del tutto normale, accanto al matrimonio monogamico. La signora parlava con molta libertà e cordialità, era stupita del perché noi cristiani non riusciamo a capire che si può vivere bene anche in una famiglia poligamica.
D’altra parte, l’anno scorso sono stato invitato a parlare a Trapani e un sacerdote di Mazara del Vallo mi diceva che in quell’importante città peschereccia italiana (55.000 abitanti) la pesca è ormai un lavoro quasi esclusivo dei tunisini che vivono in quartieri separati con le loro famiglie. “La poligamia è proibita in Italia – diceva – ma fra i pescatori tunisini che vivono tra noi questo tipo di matrimonio continua indisturbato. La polizia fa finta di niente e le comunità islamiche vivono secondo le loro regole, purché non diano fastidio a noi italiani”. E lui stesso aggiungeva: cosa succederà fra venti o trent’anni, quando i musulmani in Italia non saranno più mezzo milione come oggi, ma due o tre milioni? Vorranno riconosciuta per legge la poligamia, con tutti i diritti e i doveri relativi? E quando sarà riconosciuta giuridicamente, non vorranno anche gli italiani benestanti e laicizzati provare, sperimentare questo diverso tipo di matrimonio?
Si parla molto in questi giorni di leggi che riconoscano giuridicamente le coppie di fatto e le unioni di omosessuali perché in fondo fanno ormai parte del panorama della società italiana. Anche senza etichettarli come “matrimonio”, si dice che i “diritti” di queste persone che vivono in coppia vanno riconosciuti: non danno fastidio a nessuno, sono maggiorenni liberi e consenzienti, tra loro spesso c’è vero amore, appassionato e fedele. I fedeli o anche altri sono liberi di praticare il matrimonio monogamico: ma perché voler imporlo a tutti? Perché non riconoscere che il mondo moderno ha maturato, nell’evoluzione delle mentalità e dei costumi, varie forme di matrimonio e non solo quella tradizionale tra uomo e donna riconosciuta dalla nostra Costituzione?
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Quando Papa Benedetto e i vescovi italiani condannano il “relativismo” dottrinale nel campo della fede e morale nella vita personale e civile, si dice che vogliono imporre a tutti la loro visione della vita, non hanno ancora accettato il vivere moderno, democratico e pacifico, per cui tutto va bene purché non si violino i “diritti” delle singole persone. Ma non è così. La storia dell’umanità dimostra che oltre ai “diritti delle persone” ci sono anche i “diritti dei popoli”, i “diritti delle società”. La poligamia o le unioni riconosciute fra gay non violano i diritti di nessuna persona, ma diventando legge diventano costumi, cultura (“lex creat mores”, la legge crea i costumi, diceva il legislatore romano); i grandi imperi e civiltà decadono e scompaiono quando si corrompono dall’interno, quando la decadenza delle leggi e dei costumi indeboliscono le famiglie, portano ad una crisi demografica, la società si sfalda: è inevitabile che popoli più giovani, più severi e più prolifici finiscano per prevalere. Quando in Italia (è solo una provocazione!) sentiremo proporre la “sharia” (cioè la “Legge islamica”) come legge di stato, allora molti di quelli che oggi giudicano importuni Papa Benedetto e il card. Ruini diranno: “Ah, ma il cristianesimo era meglio!”.
Noi cristiani non temiamo di essere piccola minoranza nelle società in cui viviamo. Lo eravamo fin dall’inizio e lo siamo ancora in molte parti del mondo. Ma, nel nostro caso specifico, abbiamo la gioia di essere italiani e non possiamo tacere di fronte a leggi che finirebbero per portare la nostra patria ad una deriva morale e sociale di cui è difficile vedere uno bocco positivo. Un proverbio dice che al peggio non c’è mai fine. I radicali, le femministe e chi promuove o tollera queste nuove forme di “unione civile” sono disposti, in un prossimo futuro, ad ammettere anche la poligamia nella nostra legislazione?
Piero Gheddo
Avvenire 2006
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