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Questo breve ma interessante romanzo storico, racconta di un sacerdote diocesano di Trento, don Angelo Confalonieri, che nella prima metà del 1800 viene mandato da Propaganda Fide ad evangelizzare i non cristiani dell’Australia. In contrasto con la cultura dominante in Europa, i Pontefici romani e i missionari affermavano chiaramente la natura umana di indios americani, neri africani e aborigeni australiani, che andavano trattati da uomini diversi da noi, ma anch’essi facenti parte del genere umano e redenti da Cristo. Ecco perché, anche in Australia, come in altre parti del mondo colonizzato, i missionari che andavano al seguito dei colonizzatori, specialmente quelli come il trentino padre Angelo che erano animati da una forte fede in Cristo e dall’autentica passione missionaria, si distinguevano dagli altri bianchi e sono stati primi a prendere un contatto umano con gli aborigeni, imparando la loro lingua, ambientandosi nella loro cultura e costumi e poi, con l’andare del tempo e la crescita della missione, educandoli col Vangelo a prendere coscienza dei loro diritti di creature di Dio e di farli valere, inserendoli nel mondo moderno in modo graduale e senza perdere i loro valori ancestrali.

     Padre Angelo muore troppo presto, a 35 anni, dopo 9 anni di sacerdozio e due di missione fra gli aborigeni australiani. Ma quel poco che conosciamo di lui lo rende veramente esemplare ed eroico: un eroismo che lo porta alla morte prematura per esaurimento delle forze vitali e febbri malariche. Una vita simile a quella del Beato Giovanni Mazzucconi, morto martire nell’isola di Woodlark (oggi in Papua Nuova Guinea) a 29 anni nel settembre 1855, dopo 5 anni di sacerdozio e tre di missione. Mazzucconi era partito con la prima spedizione di missionari del Pime[1] per evangelizzare un popolo che viveva ancora nella preistoria. E’ stato beatificato da Giovanni Paolo II il 19 febbraio 1984[2].

   Angelo Confalonieri, nato nel 1813 a Riva del Garda (Trento), sacerdote della diocesi trentina nel 1839, è viceparroco impegnato e definito dal suo parroco “strano ed estroso… sostanzialmente buono. È sacerdote di abilità, si applica anche con premura alla cura d’anime e mostra genio alla predicazione”. Don Angelo aveva, chissà come e perché, un’aspirazione profonda: essere missionario di Cristo in terre lontane. Si prepara alle fatiche della missione con mortificazioni e privazioni, con escursioni faticose per sentieri di montagna, si abitua a sopportare il caldo e il freddo, a patire fame e sete e stanchezze, passar intere notti sulla neve. Nel 1844 ottiene dal suo vescovo il permesso di andare a Roma. A Propaganda Fide si incontra con l’irlandese mons. John Brady, vescovo di Perth e incaricato di evangelizzare tutto il Nord Australia, che lo invita ad andare e padre Angelo non aspettava altro. Parte da Londra il 17 settembre del 1845, con altri 26 religiosi di varie nazionalità trovati da mons. Brady per la sua diocesi. L’8 gennaio del 1846, giunge nella solare Perth. L’Australia finalmente!

   Il vescovo di Perth (nell’Australia dell’Ovest) lo destina, con due chierici irlandesi studenti di teologia James Fagan e Nicholas Hogan, al Nord per stabilirvi al più presto una missione fra gli aborigeni. Durante il lungo viaggio dall’Europa all’Australia, fra i tre era nata un’amicizia istintiva. James e Nicholas erano giovanissimi ed avevano un entusiasmo e una bontà d’animo che impressionavano il prete italiano. Ma purtroppo i due irlandesi affogano nel naufragio della nave che li stava portando da Sydney a Essington nel Queensland. In quel naufragio, padre Angelo salva la vita ma perde tutto quel che aveva portato per iniziare la missione. Deve quindi affrontare da solo l’avventura della prima missione fra gli aborigeni e prima ancora l’inserimento in una società inglese e anglicana, che non vedeva bene il prete cattolico.

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       Padre Confalonieri era destinato all’estremo nord-ovest del continente, come vicario apostolico di Port Essington, dove di cattolico non c’era nulla e, dopo la morte dei due seminaristi irlandesi, nessuno oltre a lui. La sua base era presso il presidio militare inglese, il “Victoria”, all’interno dell’immensa baia della penisola di Cobourg, una regione fra le meno vivibili dell’intera Australia (eccezion fatta per i deserti), caratterizzata dalla natura selvaggia e dal pericolo preoccupante di febbri tropicali (a quei tempi non ben individuate), fra le quali, probabilmente, la malaria.

     Dopo il naufragio, solo e senza nulla addosso, padre Angelo è quindi portato a Essington dove giunge il 13 maggio del 1846. Il sogno e il progetto di fondare una missione fra gli aborigeni di Cobourg, vista la situazione del luogo, i rapporti già deteriorati fra inglesi e aborigeni e Angelo che era proprio l’unico cattolico e per di più con i soli suoi vestiti addosso, erano dati di fatto che avrebbero scoraggiato chiunque e costretto a rinunciare all’opera di evangelizzazione, fare ritorno a Sydney e probabilmente anche a Perth dal vescovo Brady che l’aveva mandato.

     Ma è proprio a Port Essington che il missionario originario delle Dolomiti rivela tutta la forza della sua fede in Cristo e nella missione a cui Gesù e la Chiesa l’avevano chiamato e mandato. Decide di rimanere sul posto e scrive in una lettera conservata nell’Archivio di Propaganda Fide: “…tuttavia non cesserò, colla grazia ed assistenza del Signore, di tutto sacrificare me stesso a Gloria di Dio, ed a salute di questi miserabilissimi nostri fratelli”. Naturalmente la Provvidenza interviene ad aiutarlo, come testimoniano tante altre situazioni simili nel mondo missionario.

   La bontà e la fede di Angelo muovono il comandante del presidio militare, John McArthur, ad aiutarlo nei limiti del possibile (non era nemmeno suddito inglese!), accogliendolo fra i militari e assegnando anche a lui la razione di cibo e di vestiti dei militari e tutto ciò che il missionario riteneva indispensabile per iniziare la missione. Non solo, ma manda i suoi militari a costruirgli una capanna a Black Rock a diverse miglia di oceano da Essington, affinchè potesse dare inizio alla sua missione. E di tanto in tanto, gli inviava provvigioni per la sua sopravvivenza. Senza questi aiuti, vivere a Black Rock, almeno nelle prime fasi di ambientamento, sarebbe stato praticamente impossibile. Fu quindi certamente grazie all’aiuto di McArthur e dei militari inglesi che Confalonieri potè rivolgersi pienamente ai nativi.

     Non continuo il racconto di questa storia, poiché si trova tutto nelle pagine che seguono. . Insomma, diventando “uno di loro” si conquista una fiducia che nessun altro bianco prima di lui aveva avuto. Muore poi di febbri malariche e di esaurimento delle forze vitali nella sua capanna di Black Rock il 9 giugno 1848.

     Fin qui il romanzo storico, interessante anche per le visite che Mac Arthur faceva a padre Angelo nella sua capannuccia di Black Point, andandovi in canoa e fermandosi anche diversi giorni con lui e addirittura una settimana, per ascoltare il missionario e discutere con lui dell’orientamento spirituale che ogni creatura di Dio deve dare alla propria vita. Ma, per completare le notizie che il romanzo storico dà di padre Angelo, bisogna aggiungere alcune altre informazioni che si traggono dalle fonti storiche della sua vita.

   Anzitutto lo spirito di servizio che caratterizzò fin dall’inizio i suoi approcci con i nativi. Si prodigò per aiutarli nei casi di necessità o perchè affetti da malattie, come nel caso di una sorta di epidemia di «febbre» che decimò gli aborigeni. E poi per portare la pace fra clan rivali e migliorare la convivenza e il dialogo fra le varie popolazioni. Imparò velocemente la lingua dei nativi e fu subito accettato grazie al suo impegno di appianare contrasti fra le etnie, condividendo le sue provviste e adottando il loro stile di vita nomade.

   Vivendo un anno di quasi continua e misera vita nelle selve assieme “con questi poveri Selvaggi – scriveva – posso adesso parlare perfettamente il loro linguaggio, ho veduta la loro deplorabil miseria, osservate le loro affligenti costumanze, guadagnata anche la loro confidenza, ma la loro povertà e miseria è si profonda, la loro condizione è si degradata, il loro avvilimento è sì bestiale, che presenta le più ardue difficoltà per la Missione. Anche l’immensa distanza, e la rarissima comunicazione col mio Vescovo accresce di non poco le difficultà, e può talvolta render la Missione soggetta alle più dure e critiche circostanze.Sia sempre ed in tutto fatta la Volontà del Signore, la cui Misericordia, con tutto il mio povero cuore fervidamente imploro sopra quest’ultima e più avvilita famiglia della generazione umana. Voglia anche benigno il Signore, accettare le povere mie fatiche, esaudire le deboli mie preghiere”.

     Padre Angelo, con tutta evidenza, si manteneva in continuo contatto con Dio attraverso la preghiera e offrendo le sue fatiche quasi disumane per il bene del suo popolo. E’ un missionario modello in tutto, totalmente dedicato alla sua missione e al suo popolo. Non si può spiegare diversamente il fatto che, pur facendo una vita nomade, pur dovendo affrontare ogni giorno il problema di procurarsi il cibo quotidiano e di provvedere ai bisogni primari della sua vita, sia stato in grado di aiutare gli altri e di produrre alcune piccole opere dell’intelletto, che vennero poi stampate e ancor oggi conservate: un frasario inglese-aborigeno dell’idioma di Cobourg[3]; ci sono testimonianze che Confalonieri scrisse in lingua aborigena anche un libro di preghiere, i Dieci Comandamenti, l’Ave Maria e un racconto della Passione di Cristo, ma fino ad oggi non si sono trovati. Di certo egli avvicinò, con grandi fatiche e sacrifici, tutti i clan di Cobourg e su una sua mappa della penisola, ne segnò pure i vari territori[4].

     Padre Angelo non battezzò alcun nativo: tra il cristianesimo e la religione degli aborigeni vi è un abisso che configura due concezioni opposte nel percepire il sacro e il soprannaturale. E’ la stessa situazione che trovarono i missionari del Pime in Oceania nella loro breve missione fra il 1852 e 1855, che battezzarono solo una bambina morente prima di dover lasciare quelle isole per la morte di un missionario e il massacro del Beato Mazzucconi.

     Interessante però notare che padre Confalonieri continuava nei suoi sforzi di spiegare la religione cristiana agli aborigeni, ma capiva anche che la sua unica speranza poteva essere quella di avere una missione fissa, avere un po’di orfani ed educarli fin da piccoli nel cristianesimo, come scrisse a Mac Arthur. Ma naturalmente non ebbe nemmeno il tempo di iniziare la sua missione.

   Il 31 maggio 1848, un soldato del Victoria, che era andato a visitarlo, lo trovò in preda a una forte febbre. Venne portato nell’ospedaletto dell’insediamento militare, ma non ci fu nulla da fare. L’arcivescovo di Sydney, John Beda Polding, scrisse in una relazione a Propaganda Fide: “Questo eccellentissimo Missionario fu assalito dalla febbre sulla fine del maggio dell’anno scorso, e dopo una malattia di alcuni giorni rese tranquillamente l’anima sua nelle mani del suo Redentore il giorno del 9 di Giugno”. E in altra lettera Polding aggiunge: “Dandomi questa melanconica nuova, il Comandante, Protestante di Religione, parla del fu Don Angelo Confalonieri in termini del più alto rispetto ed affezione. E scrive: “Come potrò io esprimere il mio dolore nel compiere un sì melanconico ufficio? Ah! pur troppo è vero! L’onnipotente Iddio si è compiacciuto nella sua sagezza di ritirare da noi il vostro amato amico D. Angelo Gonfalonieri, uomo che ha meritato fra noi il rispetto e la stima di ognuno. Che debbo dire? Il vostro amico fu assalito dalla febbre insidiosa la sera del 31 Maggio e finì tranquillamente di vivere la sera del 9 di Giugno: fu seppellito la mattina dell’undici d’appresso la sua richiesta. Le sue spoglie mortali furono accompagnate alla tomba da tutti gli Ufficiali e soldati con quel rispetto che era dovuto ad un uomo di tanta stima”.

     Sulla tomba di padre Angelo, all’interno dell’insediamento militare di Fort Essington, una semplice parola: “Kismet”, che nella lingua dei nativi significa il destino segnato da Dio a ciascun uomo. Ancora mons. Beda Polding scriveva: “Io ho raccommandato al mio Clero e popolo di pregare per lui, e spero ch’egli stia ora pregando per quei poveri indigeni per amore dei quali ei rinunziò ai comodi di una vita agiata e tranquilla”.

   Angelo Confalonieri fu uno dei pionieri della missione fra gli aborigeni australiani. Altri hanno continuato per più tempo la sua missione nell’immenso continente (esteso 24 volte la nostra Italia!) e sono stati i protagonisti nell’opera di promozione e redenzione umana dei nativi d’Australia. Come ha riconosciuto nel 1939 William Cooper, uno dei primi attivisti politici aborigeni che dichiarava ad un giornale di Melbourne[5]:

     “Questa Lega [The Australian Aborigines’ League] e la stragrande maggioranza dei nativi si rendono conto che i missionari sono stati i nostri migliori amici. Se non fosse stato per le missioni e il lavoro e l’interessamento dei missionari, pochissimi aborigeni sarebbero sopravvissuti. Noi ci leviamo il cappello davanti ai missionari che hanno lasciato le comodità della civiltà per esporsi al caldo, alle mosche, alla polvere, alle cattive condizioni climatiche e agli altri disagi della vita missionaria. Considerando i sacrifici fatti dai missionari, è del tutto inappropriata l’ingratitudine espressa da chi dovrebbe ringraziare i missionari per tutto ciò che di valore ha ricevuto nella vita. I Nativi conoscono i loro veri amici e apprezzano profondamente il loro splendido lavoro”.

[1] Il Pime (Pontificio istituto missioni estere), fondato a Saronno (Milano) il 31 luglio 1850 da mons. Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e poi Patriarca di Venezia (1800-1861), è fatto proprio dai vescovi lombardi che lo approvano il 1° dicembre 1850. Trasferitosi a Milano nel 1851, non era un ordine religioso, ma il “Seminario lombardo per le missioni estere”, sacerdoti diocesani (e laici) che andavano in missione rimanendo incardinati nelle loro diocesi, dove tornavano quando dovevano abbandonare la missione. Diventa Pime nel 1926 quando Pio XI lo unisce al “Seminario pontificio per le missioni estere”, fondato a Roma su ispirazione di Pio IX nel 1872 da mons. Pietro Avanzini (1832-1874). Oggi il Pime è una “Comunità di vita apostolica”, preti e laici (fratelli) senza voti religiosi ma viventi assieme per l’unico scopo della missione alle genti e dipende dalla Congregazione per l’Evangelizzazione (Propaganda Fide).

[2] Vedi P. Gheddo, “Mazzucconi di Woodlark, Un martire per nostro tempo”, Emi 1984, pagg. 277.

[3] «Specimen the Aboriginal Language or Short Conversation with the Natives of North Australia», del quale esistono due versioni, una conservata a Roma a Propaganda Fide, l’altra in Nuova Zelanda nella “Auckland City Library”.

[4] La mappa è conservata presso La Trobe Library di Melbourne (State Library of Victoria).

[5] Ripeto                 qui la bella citazione con cui termina questo volume, perché mi pare significativa.

Prefazione di Piero Gheddo del volume “Nel tempo del sogno – Un prete tra gli aborigeni” – Editrice Lindau, Torino 2012, pagg. 90.

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