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Cari amici di Radio Maria, questa sera vi presento un grande missionario dei nostri tempi, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita: nato nel 1910, morto nel 1980 a 70 anni. E’ l’uomo che ha inventato e sperimentato un nuovo modo di cura della lebbra, poi adottato dall’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, organismo dell’ONU, e ormai diffuso in tutto il mondo.

Parlare di lebbra suscita in molti immagini orride di volti deformati, mani e piedi corrosi dal male, persone e famiglie scacciate dai villaggi. Bisogna dire che in genere queste immagini sono un ricordo del passato, perché oggi questa malattia, se presa in tempo, è perfettamente curabile. In tutto il mondo la lebbra sta diminuendo e in certi paesi anche scomparendo.

I) – La difficile missione fra i tribali in Birmania

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Padre Cesare Colombo, che era sacerdote e medico, è uno dei protagonisti di questa battaglia contro la lebbra non solo per il suo lebbrosario in Birmania, ma in tutto il mondo. Ha avuto il coraggio e la fiducia nella Provvidenza per iniziare un nuovo modo di trattare e curare i lebbrosi.

Cesare Colombo nasce ad Acquate (Lecco) il 30 marzo 1910 da una famiglia molto religiosa, viene dopo tre sorelle (una delle quali si farà suora) e lui è l’unico maschietto. Ha un’educazione religiosa molto forte, che lo orienta a consacrarsi a Dio. Entra nei seminari milanesi e poi nel seminario del Pime per la teologia. E’ ordinato sacerdote nel 1933, l’anno in cui muore suo papà Bernardo e parte nel 1935 per la Birmania, nella nuova prefettura apostolica di Kengtung, abitata da popolazioni tribali, dove sta nascendo la Chiesa perché i missionari del Pime vi erano giunti solo nel 1912, vent’anni prima.

Padre Cesare deve imparare tre lingue, l’inglese, il birmano lingua nazionale o lo shan, la lingua della tribù maggioritaria nella missione. Ma già fin dai primi mesi si interessa in modo particolare dei lebbrosi, che erano tanti in città, vivevano di elemosina, facevano piccoli lavoretti, ma erano fuggiti da tutti. Il vescovo mons. Bonetta aveva già aperto un piccolo rifugio per loro. Un capannone fuori città, nel quale venivano portati i lebbrosi senza fissa dimora e in condizioni peggiori. Due suore di Maria Bambina li assistevano e curavano, una volta la settimana un medico governativo entrava in quel lebbrosario per operare tagli e fare fasciature, portando medicine.

Padre Cesare, mentre ancora stava studiando le lingue, camminando per la cittadina di Kengtung rimane colpito dai molti lebbrosi che sedevano lungo le strade chiedendo l’elemosina. Incomincia ad interessarsi ad essi, visita spesso l’inizio di lebbrosario fuori città e si rende conto che quei poveri lebbrosi, pur assistiti, nutriti e curati, erano insoddisfatti della loro situazione, perchè abbandonati dalla famiglia e lontani del loro villaggio dove avevano parenti e amici. Incomincia a maturare l’idea di poter costruire un lebbrosario diverso, con una vita familiare normale.

In questo anno matura la sua vocazione a dedicarsi ai lebbrosi e sebbene poi venga destinato ad un’altra missione, compera alcuni libri sulla lebbra, si mette studiarli e impara che la lebbra è una malattia molto meno infettiva di tante altre. In alcune lettere già scrive, e siamo nel 1938, che è ingiusto tenere i lebbrosi separati dalla famiglia e dal mondo. Questa sua idea riuscirà a realizzarla vent’anni dopo a Kengtung.

Quando padre Cesare arriva in Birmania nel 1936 aveva 26 anni: il suo primo amore furono subito i lebbrosi. Una volta gli ho chiesto perché si era impegnato fin dall’inizio ad amare e servire i lebbrosi. Mi ha risposto: “Perché erano i più abbandonati e nessuno li voleva”. Ed infatti a quel tempo gli ammalati di lebbra non avevano nessun luogo preciso in cui essere curati, venivano semplicemente scacciati dai villaggi e andavano a vivere isolati o a piccoli gruppi nelle foreste, coltivando l’oppio per fare un po’ di soldi. La lebbra, non curata, si diffondeva facilmente nonostante tutte le durezze contro i lebbrosi (alcuni venivano anche uccisi!).

Il fatto è che la lebbra ha una lunghissima incubazione (6 e più anni) ed un lebbroso può nascondere di essere tale anche per diversi anni se ha cura di coprirsi bene e di non far vedere le macchie biancastre che appaiono sul corpo. Così quando questi infelici venivano “scoperti” come lebbrosi avevano già contagiato i familiari e i vicini.

Come tutti i giovani missionari, padre Cesare è inviato dal vescovo in un distretto a Nord di Kengtung, a Mong Yang, per fare un’esperienza concreta di vita nei villaggi. Poi passa a Mong Pok e quindi a Namtu.

Nei tre distretti in cui è stato nei primi anni, padre Cesare sperimenta la missione fra i tribali nomadi com’erano quelli di Kengtung, che ogni due-tre anni cambiavano posto al villaggio, bruciando la foresta, costruendosi nuove capanne e piantando il loro riso. La missione aveva lo scopo di annunziare la buona novella di Cristo, ma anche lo scopo civile approvato dal governo, di stabilizzare i tribali in villaggi.

I missionari fondavano una missione stabile nel territorio di una tribù e a poco a poco nasceva un nuovo villaggio attorno ai servizi della missione: dispensario medico, scuola, irrigazione artificiale dei campi, costruzione di casette in muratura. Il villaggio è un esempio imitato da altri gruppi e la tribù incomincia ad acquistare una stabilità che non aveva mai avuto.

La missione di padre Cesare, come degli altri missionari di Kengtung era proprio quella degli inizi, molto difficile per vari motivi:

  1. La scarsa popolazione dispersa in tanti villaggetti di poche famiglie ciascuno su grandi distanze, senza strade, con tante piccole guerre fra famiglie e villaggi; popoli nomadi e diversi l’uno dall’altro. L’opera di pacificazione dei missionari e del governo coloniale inglese incomincia ad avere i suoi frutti.
  2. La miseria della vita indigena: analfabetismo quasi totale, miseria nera, periodi di fame autentica prima della raccolta del riso, nei quali la gente mangiava radici, foglie, topi, vermi; malattie epidemiche (colera, malaria, vaiolo, lebbra).
  3. Infine il paganesimo più crudo che si manifestava nelle crudeltà quotidiane e nella mancanza di un qualsiasi senso della carità verso il prossimo. I missionari scrivevano che quei popoli erano “schiavi del demonio”.

La missione soffriva di una cronica povertà di mezzi, che ostacolava l’apostolato e riduceva spesso i missionari in condizioni fisiche deplorevoli e a volte li portava alla morte per mancanza di cure adeguate e di cibo. Mons. Bonetta, quando visitava i suoi missionari e ne vedeva uno che soffriva per una vita troppo dura, gli diceva: “Vieni con me a Kengtung e rimani un mese nella casa episcopale. Potrai riposarti, curarti e mangiare meglio”.

Nel 1929, pochi anni prima che padre Cesare giungesse nella missione, il superiore generale del Pime, padre Paolo Manna, aveva visitato la diocesi di Kengtung e vedendo la situazione di deperimento in cui si trovavano parecchi missionari e le troppe morti precoci (padri e fratelli giovani di 28-32-35 anni che morivano senza cure), dice al vescovo mons. Boinetta: “Se muore ancora un padre giovane in questa missione, non manderò più nessun altro missionario. Devi dare a tutti una casa in muratura, cibo sostanzioso e cure mediche adeguate”.

Perchè cari amici racconto queste cose? Perchè ci rendiamo conto di cos’era la missione della Birmania nella prima metà del secolo scorso. Situazione per noi inimmaginabili. Ad esempio, padre Cesare, nelle missioni in cui è stato, si era acquistato una fama di stregone-medico perché curava i malati con rimedi semplici, spesso fatti con erbe del posto, ma efficaci perché in persone che non hanno mai preso una medicina, una qualsiasi cura produce grandi risultati.

Ad esempio numerosi bambini morivano per i vermi nell’addome e lui li curava con la santonina, un composto organico tratto da alcuni fiori con proprietà vermifughe. Dato con una leggera purga, libera l’intestino da questi vermi. Si diffonde la voce e accorrono molte famiglie anche da villaggi lontani.

Ogni anno, fra aprile e maggio ha inizio per i tribali la stagione agricola con la semina del riso. Prima della semina, per tre giorni lo stregone del villaggio immola ogni giorno un maiale agli spiriti cattivi, distribuendo la carne fra tutti. Sono giorni e notti di ubriachezza e di disordini morali, con liti e anche accoltellamenti.

Al mattino del quarto giorno, padre Cesare visita il capo villaggio e gli dice: “Avete fatto le vostre cerimonie per avere un buon raccolto di riso. Va bene, adesso lascia fare anche a me ed ai cristiani del villaggio la nostra cerimonia per benedire i campi di riso”.

Il capo è d’accordo e invita tutti a partecipare alla processione che il missionario ha organizzato. Padre Cesare celebra la Messa su un altare di bambù fuori della piccola cappella, i cristiani e i catecumeni cantano canti in lingua shan. Alla fine il missionario benedice i cestelli portati dai suoi fedeli con i semi del riso da piantare, poi porta tutti in processione dietro ad una grande croce. Attraversano il bosco, costeggiano il letto di un torrente, si arrampicano a fatica su un sentiero e si fermano davanti ai campi di riso. Padre Colombo benedice anche quelle terre, pianta la grande croce di legno All’’inizio delle risaie e termina con un breve discorso e una preghiera in lingua shan per chiedere al Signore la grazie di un buon raccolto.

Dopo i tre giorni di gozzoviglie e le ubriacature, il sacrificio cruento dei tre maiali e le magie dello stregone, questa cerimonia così semplice e solenne di circa un’ora e mezzo colpisce tutti in modo favorevole.

Un’altra azione è quando impianta un mulino ad acqua. Fa passare di fianco alla missione un canaletto che porta l’acqua dei monti verso la pianura, l’acqua muove una grande e ruota e quella forza motrice è utilizzata per il mulino del riso e dei grani che i campi producono.

Costruisce in muratura un grande orfanotrofio per ospitare i bambini e le bambine rifiutati dalle famiglie per tanti motivi,anche perché le famiglie povere non potevano mantenerli. L’orfanotrofio di padre Cesare era fatto di mattoni crudi cotti al sole e di cemento, con tetto di zinco.

Le missioni a quel tempo in Birmania, nascevano proprio ospitando questi orfani, a volte handicappati oppure gemelli che si credeva fossero colpiti dagli spiriti cattivi ed erano uccisi. Da questi piccoli nascevo poi le famiglie cristiane e anche vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.

Un’esperienza drammatica del 1939 è quando una banda di briganti arrivano nel suo villaggio di Namtu e si dirigono verso le uniche case in muratura, quelle della missione cattolica. Padre Cesare, avvisato per tempo del loro arrivo, aveva preparato l’accoglienza. Fa allineare tutti i suoi ottanta bambini e bambine sulla piazza della chiesa, che li accolgono col sorriso.

Padre Cesare invita quei banditi in casa e il capo gli dice:

  • Prete, abbiamo fame, vogliamo il tuo riso.
  • Io di riso ne ho poco e devo sfamare tutti i bambini che ho qui con me, risponde il missionario.
  • Se devi sfamare tutti questi ragazzi – continua il capo – tieni pure il tuo riso

E con i suoi seguaci abbandonano la missione senza prendere nulla. Ed erano armati, potevano fare quel che volevano.

Padre Cesare raccontava questa avventura ancora quando nei suoi ultimi anni era a Rancio nella casa di riposo del Pime. E sorrideva dicendo: “Con una settantina di orfani da mantenere e allevare, la missione era al sicuro ed è stata il segno principale di cosa è il cristianesimo a quel mio popolo di tribali, non abituati a vedere questa carità gratuita”.

Dal 1941 al 1945, durante la seconda guerra mondiale, come tutti i missionari giovani italiani in Birmania, fu internato in un campo di concentramento in India.Quattro anni di isolamento dal mondo e di gravi sofferenze per non riuscire ad avere notizie. Nel campo inglese i prigionieri erano abbastanza liberi, giocavano, facevano corsi di lezioni e conferenze, lavoravano con gli strumenti di falegnameria e meccanica che gli inglesi avevano fornito.

Padre Cesare era ricordato dai confratelli per avere tenuto lezioni sulla lebbra, dando a tutti quel che aveva imparato studiando e visitando i lebbrosi, informandosi da suore e missionari.

Dopo la guerra mondiale torna a Kengtung

Quando nel giugno 1946 padre Colombo torna a Kengtung, trova la cittadina semi-distrutta dalla guerra e dall’abbandono, ma il vecchio villaggio dei lebbrosi alla periferia della citta, miracolosamente intatto.

Scrive parole di elogio per il vescovo mons. Erminio Bonetta che è rimasto al suo posto pur gravemente ammalato e con un occhio ormai spento dalle torture subite dai giapponesi,che lo pensavano una spia inglese! Il vescovo lo assegna al nuovo lebbrosario più lontano dalla città circa 8-10 chilometri.

La fondazione (o rifondazione) del lebbrosario avviene nel 1946, alla fine della guerra, quando padre Colombo ritorna dai campi di prigionia inglesi in India, dove era stato internato con gli altri missionari italiani.

L’antico lebbrosario, nel villaggio di Cionsak vicino alla città di Kengtung non esisteva più, era stato disperso dalla guerra e dall’assenza dei missionari e del governo birmano. Quel luogo era diventato la parrocchia di San Giuseppe, ma nel dopoguerra il governo aveva dato alla missione cattolica un grande terreno per il nuovo lebbrosario a Nongsak (10 km. da Kengtung), dove già vi erano alcune suore di Maria Bambina che raccoglievano i lebbrosi.

Padre Colombo si mette subito al lavoro con grande passione, donando tutto se stesso e il suo tempo ai lebbrosi. C’è ancora molto, anzi quasi tutto da fare. I lebbrosi vivono in casupole di fango e paglia, le suore in una capannuccia che padre Cesare scrive: “Sarebbe appena buona per metterci i conigli”.

Sorgono le casette per le famiglie di lebbrosi, le costruzioni per i giovani, l’ambiente per i ragazzi, il dispensario, l’ospedale. Per i lebbrosi in grado di lavorare procura risaie e bufali e strumenti di lavoro nei campi. Costruisce un capannone per i lavori di falegnameria. Per conoscere i vari modi di cura della malattia si mise in contatto con altri lebbrosari in Birmania e in Thailandia.

Un mese dopo il suo ingresso nel lebbrosario, il 17 gennaio 1947, si celebra la festa di S. Antonio con grande solennità. I lebbrosi vogliono dimostrare il loro affetto a suor Antonietta Ronchi, di Maria Bambina che dirigeva il lebbrosario fino all’arrivo di padre Cesare, il quale aderisce con gioia alla proposta perché vi vede il nuovo clima di fraternità che si sta diffondendo in un ambiente da tempo conosciuto come “l’anticamera dell’inferno”.

Al termine della festa, durata tutta la giornata, il missionario scrive alle sue sorelle ad Acquate e soprattutto alla sorella suor Marcella una bella lettera piena di commozione: “Se ti fossi trovata anche tu presente al concerto, avresti pianto alla vista di quei mozziconi di braccia e mani e di quei volti mangiati dalla lebbra, ma con una luce nuova che illuminava gli occhi e la fisionomia. Era la luce della gioia, della riconoscenza e dell’amore per la loro mamma. Anche suor Antonietta piangeva piano piano per non farsi accorgere”.

Quando padre Cesare assume la direzione del lebbrosario nel dicembre 1946, con tre suore di Maria Bambina stabilmente fisse nel lebbrosario, i lebbrosi erano un’ottantina, quando lascia la missione nel 1966 per tornare definitivamente in Italia, erano 1.300 interni e più di 3.000 curati esternamente nelle loro famiglie e villaggi.

II) Le cinque rivoluzioni di padre Cesare

La grandezza di padre Cesare Colombo viene da due cause: la sua fede e bontà eccezionali e poi il fatto che ha inventato e sperimentato un nuovo metodo di cura della lebbra, poi adottato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e da altri organismi internazionali dell’O.N.U. e oggi diffuso in tutto il mondo. L’hanno chiamato “il padre Damiano del nostro secolo”, in ricordo del più famoso santo padre Damiano da Veuster, nato nel 1840 in Belgio da una famiglia con otto figli, muore nel 1889 a Molokai, l’isola lazzaretto delle Isole Hawai. Aveva 49 anni nel 1889 e gli ultimi 17 spesi a Molokai tra i lebbrosi e lebbroso lui stesso. Beatificato a Bruxelles da Giovanni Paolo II nel 2005 e santificato da Benedetto XVI nel 2009 in Piazza San Pietro, ha lasciato un segno profondo nella storia della lotta contro la lebbra. Ricordiamo che 50-60 anni fa i lebbrosi nel mondo erano circa 15 milioni! Ecco come si è evoluto il trattamento e la cura dei lebbrosi in tre tempi della storia recente.

Le tre tappe storiche per la cura della lebbra

1) Prima di p. Damiano i lebbrosi erano trattati come criminali nocivi alla società e spesso uccisi o per lo meno rifiutati e scacciati da ogni famiglia e da ogni villaggio. La lebbra c’era già nei tempi antichi ed è la malattia della mancanza di igiene e di cibo, la malattia dei poveri. Dopo padre Damiano si è incominciato a vedere non il criminale da eliminare, ma l’uomo bisognoso di cure e di aiuto. Sono nati i lebbrosari e i lebbrosi sono passati dalla condizione di condannati a morte a quelli condannati all’ergastolo a vita: rinchiusi in questi “luoghi di pena” dietro al filo spinato, sorvegliati dalla polizia perché non uscissero, abbandonati dalla famiglia, dimenticati dalla società, inutili a se stessi e agli altri.

2) Con p. Damiano (1840-1889) è iniziata l’epopea di missionari e missionarie (cattolici e protestanti) che hanno dedicato la loro vita ai lebbrosi, a volte anche contraendo la lebbra e comunque vivendo in continuità nel lebbrosari senza quasi poterne uscire considerati anch’essi delle leggi e dell’opinione pubblica come lebbrosi. Ancora oggi nel mondo, la maggioranza dei volontari che, essendo sani, si dedicano alla cura dei lebbrosi sono missionari cristiani e questa è. come ha detto Madre Teresa di Calcutta “la più grandiosa, la più incisiva testimonianza di carità che i discepoli di Cristo possono dare al mondo pagano”. Secondo statistiche governative dell’India, nel 1960 circa l’80% dei lebbrosari e centri di cura della lebbra in India erano tenuti da missionari cristiani, cattolici o protestanti!

3) Il p. Cesare Colombo, medico e missionario del PIME, ha aperto una nuova via nella cura dei lebbrosi, una via rivoluzionaria: non più il lebbroso considerato un uomo bisognoso di cure e di segregazioni, ma “il lebbroso uomo come gli altri”, con una “Malattia come le altre”. Non quindi da fuggire ma da viverci assieme come con altro qualsiasi ammalato, naturalmente curando l’igiene personale e le normali precauzioni che si prendono con ammalati contagiosi.

Le cinque rivoluzioni di p. Cesare

P. Cesare era l’uomo adatto a questa assistenza, col suo carattere ottimista e la sua forte carica di umanità. Aveva capito che il problema dei lebbrosi è anzitutto psicologico e sociale, prima che fisico e medico.

Diceva sempre1: “Prima di guarire la lebbra visibile, bisogna estirpare quella che c’è nel cuore. Nella mentalità della gente infatti la lebbra è causata dalla mancanza di meriti e chi ne viene colpito sopporta l’idea di vivere il resto della vita come un reietto, in espiazione delle colpe commesse”. Padre Cesare si riferiva alla credenza, di origine buddhista, del karma che ogni persona merita nel corso della sua vita. Se il suo karma è buono, si rinasce in una casta superiore; se è negativo in una casta inferiore o tra i fuori casta e si porta il peso del karma negativo da pagare.

Così si era proposto fin dall’inizio, nel gennaio 1947, raccogliendo i lebbrosi sbandati e disperati, di costruire per essi quella che verrà poi chiamata nel celebre film di un regista americano William Deneen “La Città Felice “ ( o il “Villaggio della felicità”), la città in cui la gente si vuole bene e perciò è felice nonostante la lebbra.

La linea che segue è “rivoluzionaria”, tanto che il lebbrosario di Kengtung diventa famoso negli anni seguenti fra gli specialisti della lebbra in tutto il mondo e vanno a visitarlo dall’America, dall’Asia, dall’Australia, dall’Europa.

Il p. Colombo parte dall’idea, che in lui è diventata profonda convinzione, che il terrore della lebbra è in gran parte superstizioso: dato che la lebbra si trasmette per contatto diretto con un lebbroso, attraverso le mucose o ferite del corpo, basta curare l’igiene del corpo e la lebbra non si prende. Lui stesso, infatti, il padre Cesare, è vissuto vent’anni con i lebbrosi operando e curando le loro piaghe, quindi a diretto contatto con il male, ma senza contrarlo. D’altronde, come noto, i figli dei genitori lebbrosi nascono senza lebbra. Ecco quindi i 5 punti della rivoluzione operata dal lebbrosario di Kengtung nella cura della lebbra:

  1. Non più lebbrosario chiuso con filo spinato per custodire i malati ma libertà di entrare e uscire sia per i malati che per parenti ed amici. Allo stesso modo gli esterni possono entrare nel lebbrosario come in un qualsiasi villaggio. Le famiglie lebbrose vengono coinvolte nella vita civile, economica.

Padre Cesare racconta che il lebbrosario aveva un suo comitato eletto dai lebbrosi stessi, che discuteva con padre Cesare le decisioni più importanti da prendere. Una volta giungono un gruppo di una trentina di lebbrosi con loro famiglie e chiedono di essere ospitati. Padre Cesare si rende conto che le casette dei lebbrosi sono già strapiene e il cibo scarso. Raduna il comitato e dice: “Questa la situazione, discutete fra di voi, votate e ditemi se sì o no. Lascio a voi la decisione, ma sappiate che se accogliamo questi nuovi pazienti ci sarà meno cibo per tutti”. E raccontando questo fatto si commuoveva dicendo: “Hanno deciso di sì all’unanimità e ho ringraziato il Signore che li ha ispirati bene”.

In una lettera del 1960 padre Cesare scriveva alle sorelle2:

Mi arrivano tutti i giorni gruppi di lebbrosi, in gran parte dalla Cina. Arrivano in uno stato miserabile. Per poter passare il confine senza esserne scoperti danno oppio da mangiare ai loro piccoli, in modo che non piangano. Il mio problema è di accomodarli tutti e dar loro il riso. Il Signore nella sua misericordia me li manda e io li prendo. Non riceverli significa mandarli alla morte nella foresta”.

2) Non più i lebbrosi lontani dalla loro famiglia, ma assieme alla loro famiglia nel villaggio dei lebbrosi. Non più quindi un campo di prigionia ma un vero villaggio con terre coltivate e negozi, feste popolari, sport , scuola. Un villaggio come gli altri, le cui famiglie hanno qualche membro colpito dalla lebbra.

Oggi in tutto il mondo si visitano lebbrosari che sono villaggi con famiglie che hanno lebbrosi in casa, ma nei primi miei viaggi negli anni sessanta, in India, Bengala, Vietnam, Amazzonia e Africa, ricordo con orrore i lebbrosari-prigione,in sui i lebbrosi vivevano isolati, il villaggio cintato e custodito dall’esercito, nessuno poteva uscire ed entrare, se non con un permesso speciale della polizia.

Ricordo il lebbrosario di Marituba in Amazzonia, visitato nel 1972 con Marcello Candia. Abbiamo atteso due giorni il permesso della polizia e poi siamo entrati timidamente poche ore e accompagnati da un incaricato. Avevo già visto due lebbrosari in India e Bengala, ma con le suore e i sacerdoti. Qui non c’era nessuno e Candia è riuscito a farli entrare negli anni settanta. Uno squallore incredibile, una puzza che prendeva alla gola, nessuna costruzione in muratura, solo capanne di fango e paglia e qualche casetta di legno col tetto di paglia. I lebbrosi erano larve di uomini e donne, sorridevano al nostro saluto, ma si vedeva che erano abbandonati a se stessi.

3) Non più il ricovero di tutti i colpiti dalla lebbra ma solo di quelli che sono incurabilie il lebbrosario si impegna a visitare e curare gli altri lebbrosi nei loro villaggi, in seno delle loro famiglie, per abituare la gente a convivere pacificamente con questi ammalati. I più gravi, invece vengono ospitati nel “villaggio della felicità”.

Dopo la guerra – scrive in una lettera del 19603 – i lebbrosi nel lebbrosario erano 82, adesso ne ho qui 847, di cui 722 battezzati. Ho qui 178 bambini,spesso nati nel lebbrosario. A sei anni li manderò alla scuola e non so se li riceveranno. Dovrò fare una scuola a parte per questi figli di lebbrosi, per il momento ho fatto un quartiere isolato nel lebbrosario, dove i bambini giocano e ricevono un po’ di insegnamenti. Sono deciso a tenerli tutti, perché di tutte le centinaia che ho mandato nelle opere della Santa Infanzia della nostra missione. Solo due o tre sono vivi! Il motivo è che sono trattati come tutti gli altri fanciulli, mentre questi hanno il fisico più debole e hanno bisogno di nutrimento e di cure speciali. Immaginati il lavoro e le preoccupazioni finanziarie e i rimproveri del vescovo, preoccupato anche lui”.

4) Non più il lebbroso passivo in attesa solo del cibo e della medicina, con un profondo senso di inutilità della vita, ma la cura attraverso il lavoro: ecco quindi che nel lebbrosario di Kengtung lavorano, anche quelli senza mani e senza piedi. Lavorano i campi, il legno e il bambù, fanno tanti lavoretti artigianali, producendo oggetti di cui hanno bisogno la comunità e le loro famiglie e producono anche per la vendita all’esterno.

5) Infine, ultima rivoluzione, la più grande di tutte, non più i lebbrosi costretti ad abbandonare la moglie o a non sposarsi, ma il matrimonio anche per loro, anche per le donne lebbrose, dato che i figli dei lebbrosi restano immuni: la possono contrarre dopo, ma a Kengtung le norme igieniche sono ferree e p. Cesare ricordava spesso che nessuno dei bambini nati nel lebbrosario è mai diventato lebbroso!

Oggi questi principi nella cura della lebbra sono comuni a molti lebbrosari e ufficialmente raccomandati dall’O.M.S., ma p. Cesare Colombo è stato il primo o fra i primissimi a “scoprirli” e soprattutto ad applicarli integralmente nel lebbrosario di Kengtung, con risultati che hanno stupito gli esperti che andavano a visitare “la Città Felice” sui monti della Birmania.

Nel 1953 padre Colombo frequenta a Roma, nelle Cliniche dell’Ordine di Malta, un corso teorico-pratico di medicina, con tanto di diploma internazionale, così che al suo ritorno in Birmania incomincia a fare interventi chirurgici a favore della sua gente nel suo ospedale. In seguito, quel diploma gli viene riconosciuto dalle autorità birmane come laurea in medicina. Oltre al lavoro nel lebbrosario, accanto alla residenza vescovile apre un ambulatorio medico e ogni giorno al mattino, prima di recarsi nel lebbrosario, visita gli ammalati, prescrivendo le medicine da prendere, lasciando alla suora infermiera l’incarico di continuare la cura. Poi trascorre tutta la giornata nel lebbrosario visitando i lebbrosi nell’ospedale e dirigendo i lavori iniziati.

Nel 1956 altro ritorno in Italia per il Congresso internazionale sulla lebbra (16-18 aprile) organizzato dall’Ordine di Malta che invita padre Cesare, pagandogli il viaggio, per spiegare agli esperti della lebbra com’è organizzato il suo lebbrosario. Al Congresso sono presenti 250 studiosi di 21 paesi, con 16 organismi internazionali per la lotta contro la lebbra e un rappresentante dell’OMS.

E’ un Congresso importante, i cui partecipanti sono ricevuti e incoraggiati da Pio XII. E’ presente Raoul Follereau che lancia il suo appello e suor Maria Susanna che ha inventato un vaccino contro la lebbra, il “Vaccinum Marianum” rivelatosi poi inefficace. Ma il più seguito e applaudito è proprio padre Cesare Colombo. Il suo intervento è pubblicato in otto pagine della sua biografia4.

In termini scientifici ma anche chiari, spiega bene i vari tipi di lebbra, come nasce questa malattia, come e quando è infettiva e come si cura; ma soprattutto racconta l’esperienza del lebbrosario di Kengtung, con le cinque rivoluzioni introdotte nella vita dei lebbrosi, che danno buoni frutti e nessuna contro-indicazione. E insiste sul principio: i lebbrosi sono malati come gli altri, vanno trattati come ammalatai senza alcuna discriminazione, inseriti nella vita della famiglia e del villaggio.

Il 2 maggio 1955, l’esperto di lebbra e consulente dell’Oms presso il governo birmano, visita il villaggio dei lebbrosi a Kengtung e scrive una relazione in cui si legge: “Sono lieto di aver visitato la colonia di lebbrosi di Kengtung. La prima impressione è stata che i degenti apparivano felici e allegri, nonostante la loro disgrazia fisica. Essi tengono la loro colonia pulita e in buon ordine. Svolgono una vita normale per mezzo di attività ben regolate e mostrano un comportamento confidenziale verso il personale che vi risiede, in particolare il padre Cesare Colombo, direttore della Colonia”.

E più avanti: “Sono lieto di affermare che la colonia è una delle migliori che io abbia mai visitato, se si tiene conto delle risorse limitate dello stato e del suo isolamento all’estremo nord-est della Birmania, con comunicazioni per nulla buone con il resto del mondo… Un aspetto degno di nota nella colonia è la vita familiare. In essa si seguono tutti i principi della segregazione degli infetti… C’è anche la possibilità di mandare i ragazzi non infetti o già curati, alla scuola della missione cattolica di Kengtung”.

“Il rev. padre Colombo ha un dossier di preziose annotazioni cliniche e una buona attitudine per intelligenti ricerche. Esprimo il voto che le sue sistematiche conclusioni siano rese accessibili ad un più largo pubblico, specializzato e profano, mediante la collaborazione a riviste medico-scientifiche”.

La fama del lavoro di P. Colombo si diffonde in tutto lo stato Shan di Kengtung e arriva anche in Cina, nella provincia dello Yunnan, confinante con Kengtung. E così ogni anno arrivano nuovi lebbrosi. Ma soprattutto la fama di padre Cesare e della sua colonia di lebbrosi si diffonde in tutto il mondo, negli ambienti scientifici e di lotta alla lebbra. Negli anni seguenti la colonia di Kengtung è visitata da esperti di lebbra e da turisti e curiosi.

III) Ha dato la vita per i suoi lebbrosi

Sono andato la prima volta in Birmania nel febbraio 1983, circa tre anni dopo la morte di padre Colombo e naturalmente ho visitato il lebbrosario di Kengtung dove la presenza del missionario era ancora viva. Eravamo tre missionari del Pime e ci hanno fatto un’accoglienza cordiale e commossa. Ho visto le stanze del padre Cesare, l’ospedaletto, la cappella, i luoghi di raduno, l’officine di meccanica, la falegnameria, i campi coltivati dai lebbrosi. Le sue foto e quadri di lui fatti da pittori locali erano ovunque. Ma in quella visita al lebbrosario nel 1983, una suora italiana di Maria Bambina mi diceva che c’erano ancora indigeni nei villaggi che chiedevano di lui e lo pregavano. Poi mi ha illuminato su un aspetto della vita di padre Cesare, che è poco ricordato anche nella sua biografia, perché poco appariscente5: il suo apostolato missionario. Ecco le parole precise della suora, ritrovate in miei appunti di quel viaggio:

Padre Cesare era un vero missionario, si preoccupava di far conoscere Gesù Cristo e di portare la sua gente alla fede…. Nel lebbrosario aveva messo segni religiosi ovunque, nelle sale di riunione, nel suo ufficio, lungo la via centrale. Anche una statua della Madonna voluta da lui. Ma poi, visitando i malati e i villaggi lui faceva il medico ma diceva a noi suore che era medico dei corpi e anche delle anime. Quindi, agli ammalati diceva sempre: “Prega Gesù, prega la Madonna perchè siamo tutti nelle mani di Dio e solo lui può guarirti bene”. Se qualcuno gli chiedeva informazioni sul crocifisso che portava sulla veste, gli parlava di Gesù Cristo volentieri…. Ha battezzato centinaia di lebbrosi e anche molti dei villaggi visitati”.

Padre Cesare così scrive6: “Per Pasqua ho amministrato numerosi battesimi e 284 cresime. In questi anni ho già battezzato un migliaio di lebbrosi, ma ne ho ancora da accogliere più di 10.000. Ogni giorno si fanno più di 200 iniezioni, di cui buona parte endovenose, oltre le cure innumerevoli per bocca a più di 550 persone. Le suore si immolano continuamente nel loro diuturno lavoro per questi poveri diseredati della società, obbligati a vivere separati dal mondo che li circonda e con sofferenze morali e fisiche indescrivibili”.

Il primato dell’uomo morto due volte

Il padre Cesare Colombo ha realizzato nella sua vita un primato unico e difficilmente eguagliabile: è morto due volte. Le due date sono: il 13 ottobre 1980 quando morì fisicamente qui a Lecco nella casa del Pime; e l’altra data è il 31 dicembre 1966 quando a Kengtung avvenne quella che lui seriamente definiva “la mia prima morte”. Quello era l’ultimo giorno valido per poter uscire dalla Birmania, se rimaneva nel paese un giorno in più finiva in prigione. Lui era uno dei 18 missionari del Pime espulsi dai militari nel 1966. L’ordine di espulsione di tutti gli stranieri entrati in Birmania dopo l’indipendenza del 1948 non ammetteva eccezioni, anche se p. Cesare aveva sperato fino all’ultimo, che come gli avevano promesso ministri e personalità politiche e militari, facessero uno strappo almeno per lui, conosciuto in tutta la Birmania come “il liberatore dei lebbrosi”.

Quel 31 dicembre c’erano due voli da Kengtung alla capitale Rangoon, uno al mattino e l’altro al pomeriggio. Il vescovo mons. Guercilena consiglia padre Cesare di partire quasi di nascosto al mattino, per evitare una manifestazione di affetto nei suoi riguardi da parte di lebbrosi e non lebbrosi di Kengtung. Il missionario fissa il posto sull’aereo alle nove del mattino. Alle sette sale sulla jeep che lo conduce all’aeroporto. In quella chiara mattinata di dicembre, giungendo all’aeroporto padre Cesare capisce che l’ora della sua partenza era stata conosciuta. Bandiere, fiori, grida di saluto, tanta gente che correva verso di lui per avere l’onore di toccarlo, di dirgli grazie prima che se ne andasse per sempre. C’erano più di mille persone quasi tutti lebbrosi, ma anche gente di Kengtung, venuti a dargli l’ultimo saluto!

Per salutare il loro padre e benefattore, non si erano preoccupati delle disposizioni governative che proibiscono ai lebbrosi la libera circolazione e neppure avevano badato ai loro piedi piagati, che avrebbero fatto volentieri a meno di percorrere i chilometri che separano il lebbrosario dall’aeroporto: lo avevano voluto salutare per l’ultima volta, a tutti i costi! Erano lì, attorno a lui stringendolo in una morsa affettuosa fatta di grida, di pianti e di carezze, di abbracci e di preghiere. In quella confusione, il p. Colombo non fu più padrone di sé. C’erano parecchie autorità, ma non poté più salutare nessuno. Anche gli ultimi istanti in cui è rimasto sui monti di Kengtung, ai confini con Cina e Laos, li ha spesi per i suoi amici prediletti, i lebbrosi, quelli che facevano paura a tutti ma non a lui che aveva consacrato a loro la sua stessa vita.

Questa è stata la prima morte di uno dei più grandi missionari del Pime nei tempi moderni: il distacco dai lebbrosi e dal lebbrosario di Kengtung. La seconda la morte, quella autentica, è avvenuta il 13 ottobre 1980 per un male altrettanto terribile della lebbra: il cancro. Lui che aveva curato e guarito migliaia di lebbrosi, non ha trovato nessuno capace di guarirlo. La lebbra è un male che perdona, il cancro no!

Il Tocco della sua mano”

Un aspetto veramente rivoluzionario del suo lebbrosario, esemplare per tutte le opere costruite dai missionari nelle missioni, era la responsabilizzazione dei lebbrosi, che padre Cesare sapeva suscitare e valorizzare. Lui era il capo, la guida, il sacerdote, il medico e chirurgo, il finanziatore, il padre di tutti: ma non prendeva mai una decisione importante senza farla discutere prima dai capi-famiglia e poi a livello di villaggio. Come quando venivano al lebbrosario nuovi lebbrosi o famiglie e c’era difficoltà ad accoglierli per mancanza di spazio e anche di riso. P. Colombo convocava il consiglio dei lebbrosi, esponeva il caso e poi diceva: “Decidete voi ma se prendiamo queste nuove famiglie ci sarà un po’ meno da mangiare per tutti” e sapeva già in anticipo che, anche se in gran parte pagani, quegli uomini avrebbero deciso di accogliere anche questi nuovi sventurati. Non si poteva vivere accanto a padre Cesare e non capire la grande lezione della carità che tutta la sua vita insegnava!

Il lebbrosario di Kengtung viveva le sue giornate tranquille, quando nel marzo 1966 scoppia imprevista la bufera: tutti gli stranieri entrati in Birmania dopo l’indipendenza (1948) debbono tornare ai loro paesi d’origine. L’ordine valeva per tutti gli stranieri ed era stato dato per risolvere il problema dei molti cinesi e indiani presenti in Birmania, ma finiva per danneggiare anche i missionari. Il padre Cesare era entrato in Birmania nel 1936, ma poi era tornato in Italia nel 1953 e negli anni seguenti si era laureato in medicina e aveva fatto la specializzazione in chirurgia (il suo principali lavoro in lebbrosario era amputare gli arti ormai in cancrena! ). così risultava agli occhi della burocrazia governativa, come un giovane immigrato!

Ma era troppo famoso in Birmania per poter essere espulso senza suscitare reazioni: a Rangoon, la capitale, si mossero in suo favore ministri e militari, si raccolsero firme fra la gente, (in grandissima maggioranza non cristiani), persino i bonzi buddisti mandarono una delegazione al presidente perché il missionario amico dei lebbrosi potesse restare, ma tutto fu inutile: il governo temeva che, facendo un’eccezione per lui, cinesi e indiani con i rispettivi governi avrebbero trovato un appiglio per proteste diplomatiche e minacce militari: soprattutto si temeva la Cina, a quei tempi aggressiva nei confronti della Birmania, con l’appoggio dato alle bande irregolari di guerriglieri comunisti o separatisti. Però fu detto a padre Colombo, da parte di alti funzionari governativi, che qualche tempo dopo, se avesse voluto o dovuto tornare per il lebbrosario, l’avrebbero riammesso. Ma era una bugia pietosa.

Così il p. Cesare tornò in Italia e da allora si può dire che ha continuato a vivere per i suoi lebbrosi, pur svolgendo una grande attività anche nel nostro paese: quando parlava di Kengtung immancabilmente si commuoveva e suscitava commozione in tutti quelli che l’ascoltavano. Scriveva lettere ai lebbrosi informandosi di tutti, mandava aiuti, faceva studiare i figli dei lebbrosi, girava l’Italia e gli Stati Uniti per predicazioni e conferenze sempre parlando della sua esperienza di medico-missionario sui monti della Birmania. Aveva inventato diverse forme per aiutare le migliaia di lebbrosi che continuavano a dipendere da lui: soprattutto proponeva a famiglie italiane ad adottare un giovane o una ragazza birmane per farli studiare. Scriveva centinaia di lettere in Birmania e a tutte le famiglie che avevano adottato i suoi ragazzi, ne aveva anche in USA, Australia, Inghilterra e Canadà….

I lebbrosi erano rimasti, naturalmente, la sua passione, dato che ne aveva scoperti anche in Italia all’ospedale S. Martino di Genova, dove c’è un reparto per i colpiti della lebbra: li conosceva uno ad uno ed andava spesso a visitarli. Da Lecco poi, dove aveva stabilito la sua sede nella casa di riposo dei Missionari del PIME, continuava ad aiutare il lebbrosario ed i suoi due successori alla direzione, Camnasio e Filippazzi del PIME. I suoi confratelli della casa di riposo dicevano che padre Cesare, quando parlava dei suoi lebbrosi, piangeva. A Lecco padre Cesare era amico di don Aldo Cattaneo e della signorina Lucia Sozzi e aiutava molto nell’animazione del “Laboratorio missionario Giovanni Mazzucconi”, che diventò una dei principali organismi italiani di aiuto alle missioni, in particolare della Birmania.

I due Films girati da W.Deneen a Kengtung all’inizio degli anni 60, “La lebbrosa” e “la Città felice”, che hanno vinto due premi internazionali, sono tutt’ora in circolazione in diversi paesi. Il regista americano, William Deneen, arrivato nel lebbrosario con un sacro terrore della lebbra si interessò subito di chi faceva la cucina. Visto che erano donne lebbrose, nel mese e mezzo che rimase a Kengtung non volle mangiare altro che uova, banane, insomma cibi “non toccati dai lebbrosi”: Diminuì di 15 chili e scrisse a p. Cesare ringraziando della cura dimagrante gratuita.

In seguito al primo film, una scrittrice americana, Jean Madden Pitrone, scrisse una breve biografia di padre Cesare intitolata “The tough of his hand” (Il tocco della sua mano). Ma padre Colombo non volle che fosse tradotto in italiano perché, diceva, “mi presenta come un eroe, invece io sono un missionario come gli altri”.

Una bontà che veniva da Dio

Quello che colpiva in p. Cesare e che gli ha procurato migliaia di amici in tutto il mondo, era la sua profonda bontà, la sua carica di umanità, di comprensione dell’ altro. Prendeva tutti per il proprio verso, la sua stanza a Lecco era visitata da tante persone che andavano da lui per sfogarsi, per raccontare i loro problemi anche per confessarsi o sentire una parola buona, un consiglio evangelico. Anche di fronte ai problemi più gravi non perdeva mai la calma. La sua bontà veniva da Dio, non è spiegabile altrimenti quell’essere disponibile a tutti sempre col sorriso sulle labbra, cordiale, paterno, umile, capace di ascoltare i più piccoli. In America gli hanno dato premi e riconoscimenti per il suo lavoro fra i lebbrosi, in Italia ha avuto il “Premio della bontà Notte di Natale 1967”. Uno dei pochi ricordi diretti che ho di padre Cesare è che mi faceva vedere la pergamena con le motivazioni di un premio ricevuto in America e i diceva: “Dicono tante di quelle corbellerie!”.

Una scrittrice americana ha scritto su di lui un bel libro intitolato “The Touch of his hand” (Il tocco della sua mano) ma non voleva venisse tradotto in italiano perché diceva: “Questo libro mi fa un eroe, mentre io sono uno dei tanti missionari”.

Nell’ultima Messa celebrata al lebbrosario di Kengtung i lebbrosi, in gran parte pagani, composero una preghiera che diceva: “Noi ringraziamo Dio che ci ha fatti lebbrosi , perché attraverso la lebbra abbiamo conosciuto te, p. Cesare , e attraverso te abbiamo conosciuto Dio”.

Per terminare voglio esprimere un augurio alla città e alla provincia di Lecco, come a tutte le parrocchie. Il lecchese ha dato tanti missionari e missionarie alla chiesa e al mondo intero. E’ una tradizione di cui dovete andare fieri e trasmettere le storie di questi “eroi positivi” della vostra terra ai vostri figli, nipoti, alunni, nelle famiglie e nelle scuole soprattutto. I nostri giovani mancano di ideali perché la cultura corrente (ad esempio la televisione) trasmette quasi solo notizie, fiction, modelli di vita ed eroi negativi.

Mi chiedo come mai, per combattere questa deriva che per forza di cose crea nei nostri giovani un atteggiamento negativo e pessimista, la società civile, la scuola e la Chiesa non trasmettano di più le storie e gli eroismi di tanti lecchesi che hanno dato la vita per gli altri. E auguro che il Signore susciti ancora tra i vostri giovani e ragazze tante e sante vocazioni alla missione della Chiesa, che portando il Vangelo tra contribuisce ad umanizzare i popoli ed a creare un mondo migliore e più fraterno, più solidale per tutti.

1 Livio Mondini,, “La città felice – Avventura missionaria in Birmania”, Emi 2009 (II° ediz.), pag. 112.

2 Lettera del 29 febbraio 1960 alle sorelle.

3 Lettera a padre Cesare Curioni, che dall’Italia aiutava padre Cesare, dell’11 aprile 1960.

4 Livio Mondini, “La città felice – Avventura missionaria in Birmania”, Emi 2009 (II edizione), pagg. 254, la conferenza alle pagg. 132-140.

5Livio Mondini, “La città felice – Avventura missionaria in Birmania”, Emi 2009 (II edizione), pagg. 254.

6 Lettera del 4 maggio 1952 a pag. 116-117 del volume di Livio Mondini appena segnalato, a pagg. 116-117.

Padre Gheddo su Radio Maria (2010)

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