Foto di Dieter_G da Pixabay

L’estate scorsa mi è capitato di passare due giorni in un paesino collinare con un prete che ha ben cinque piccole parrocchie da servire. Gli chiedo come faccia. Risponde: «Purtroppo non riesco ad andare ogni domenica a celebrare la Messa in tutte, tanto più che il centro principale ha circa 1.500 abitanti e richiede molto lavoro. In due vado tutte le domeniche, nelle più piccole una volta al mese o quando c’è qualche festa. In alcune c’è un responsabile che organizza e i fedeli vanno in chiesa a pregare tutti i giorni o almeno una volta la settimana; in altre poco o nulla: la chiesa è quasi abbandonata».

 

Alle 18 di un venerdì pomeriggio, l’amico sacerdote mi porta in quella che una volta era una parrocchia con sacerdote residente: c’erano circa 400 abitanti, oggi un’ottantina. La chiesetta è aperta, entriamo. Ci sono 16 persone che recitano il rosario. Alla fine una giovane signora distribuisce la comunione e quando vede noi due preti si ferma, ma il parroco le fa segno di continuare. La ringrazio di quel che fa e il parroco la prega di raccontarmi la sua storia. La signora dice: «Vengo da una famiglia molto religiosa, anche mio marito è credente, questa sera non c’è, ma in genere viene con i due bambini. A casa mia si recitava il rosario tutti i giorni e dopo il matrimonio abbiamo continuato saltuariamente questa bella abitudine. Quando siamo venuti ad abitare qui, quattro anni fa, il parroco mi ha pregato di radunare i credenti per la preghiera quotidiana e sono diventata ministra dell’Eucaristia. All’inizio ho faticato a trovare due o tre persone che si impegnassero a venire, poi il Signore le ha mandate.

 

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 Abbiamo cominciato a venire di pomeriggio in chiesa per il rosario, avvisando tutte le famiglie. Eravamo in tre, quattro, cinque e non veniva nessun altro. Allora suonavamo le due campanelle del nostro campanile; il parroco è venuto a presentare l’iniziativa nella Messa della nostra festa patronale e qualcosa ha cominciato a muoversi».

Adesso il fatto di suonare le campane ogni giorno e aprire la chiesa dà fastidio a qualcuno? «No, assolutamente no; anzi, debbo dire che alcuni mi hanno ringraziato di aver ripreso questa buona abitudine. Ma anche all’inizio, quando visitavo le famiglie per dire che volevo avviare questo incontro quotidiano, nessuno si è mostrato contrario. Però non venivano. C’è sempre molto da fare e anche le persone anziane, per un motivo o per l’altro, non hanno mai tempo. E poi la televisione è ormai la nostra padrona. All’inizio ero scoraggiata e volevo smettere. Il parroco mi ha incoraggiata, ma adesso sono tutti contenti, anche quelli che vengono poco o quasi mai, perché la preghiera in chiesa è l’unico appuntamento fisso nel nostro paesino, dove non c’è più nulla. Questo ritrovarsi in chiesa fa incontrare la gente e impedisce che ciascuno viva per conto proprio; si parla e nascono altre piccole iniziative: ci sono tante case disabitate, alcuni lavorano o studiano fuori, se non incontri nessuno tutti i giorni diventi un eremita involontario, come si vede in altre situazioni simili alla nostra. Quando non ci sono io a guidare la preghiera, altri mi sostituiscono».

 

Il parroco poi mi dice: «Vedi, il Papa e il nostro vescovo dicono spesso che l’apostolato oggi debbono farlo i laici, ma non tutti i preti ci credono e si danno da fare per realizzare questo obiettivo indispensabile». Qual è la sua parte in questa chiesetta quasi abbandonata? «In tutte le mie parrocchie ho sempre cercato con insistenza chi potesse prendere l’iniziativa di un incontro di preghiera. Ma è difficile: a volte non trovo nessuno oppure cominciano, poi si scoraggiano e non vanno avanti. Ma dove ho trovato marito e moglie o anche una persona sola convinti, con l’aiuto di Dio sono riusciti a ricreare l’abitudine del rosario quotidiano: non importa se vengono in pochi, l’importante è che tutti sappiano che la chiesa è aperta e si prega. Il parroco dev’essere sempre più il formatore e l’animatore dei laici che vengono in chiesa, affinché diventino a loro volta apostoli. Ci vuole fiducia, ottimismo, speranza, anzi sicurezza che, se noi facciamo la nostra parte, lo Spirito Santo fa la sua e realizza una certa rinascita della vita religiosa e comunitaria. A volte, purtroppo, anche i preti si scoraggiano, cominciano a pensare e a dire che non c’è più niente da fare e lasciano perdere».

Piero Gheddo

febbraio 2007

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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