Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Ho ricevuto diverse lettere dopo l’armagheddo del giugno 2006 (“Dire agli italiani la verità!”), in cui dicevo che il nuovo governo italiano, in accordo con l’opposizione, dovrebbe fare agli italiani un discorso serio. Non è possibile governare l’Italia con uno stato che ha il 106% di debito rispetto al suo prodotto nazionale lordo (pil), perchè non ci sono soldi per nulla fuori dell’ordinaria amministrazione: nuove strade e opere pubbliche, metropolitane cittadine, finanziamenti alle università e alla ricerca, maggiori contributi nazionali allo sviluppo dei paesi poveri, ecc. La “Legge finanziaria” discussa nei mesi scorsi è stata una continua agonia per il governo, il parlamento e gli italiani. Protestano tutti: i pensionati e i precari, i sindaci e i governatori delle regioni, la sanità e la difesa, la pubblica sicurezza e gli impiegati pubblici. Con la conseguenza che si crea negli italiani un pessimismo del tutto ingiustificato: in Italia va tutto male, i politici sono tutti corrotti e via dicendo. Come possono i giovani crescere con un senso di ottimismo e di speranza nel futuro, per aver il coraggio di impegnarsi in nuove imprese e anche fare molti figli?

 Perchè tutto questo? Nell’”armagheddo” del giugno scorso citavo un missionario italiano in Giappone che mi diceva: “In Italia avete un popolo ricco e un governo povero, qui Giappone abbiamo un popolo povero ma un governo ricco”. Se è vero che noi italiani ci siamo abituati ad un livello di vita superiore a quello che il nostro paese produce, la soluzione è andare verso una maggior austerità di vita: ci siamo abituati ad avere molto superfluo, bisogna fare marcia indietro, non come governo, ma come società italiana.

Un lettore mi scrive una lunga lettera che in sostanza dice: “In linea generale lei ha ragione, ma non tiene conto della quantità di persone normali che lavorano e non riescono ad arrivare alla fine del mese”. Ha ragione anche lei, ma io non volevo affatto penalizzare quelli che “non arrivano alla fine del mese”. Ma solo ragionare su alcuni dati molto precisi dell’Onu. Nel 2004 il reddito medio pro capite annuale dei giapponesi era di 32.858 dollari americani; il reddito medio italiano era di 25.860 dollari Usa. Una bella differenza! Però viaggiando in Giappone e sentendo i missionari che vi abitano da decenni, vien fuori che il popolo, le famiglie, i singoli giapponesi vivono ad un livello di vita molto inferiore al nostro italiano in tutto: vestiti, casa, cibo, auto, giorni di vacanza, ore di lavoro in un anno, ecc. In Giappone fanno molti meno scioperi che in Italia e i giovani che studiano all’Università sono impegnati a fondo nelle materie che più servono al paese (quelle matematiche, scientifiche, tecniche). Leggo invece che in Italia le facoltà di matematica, fisica e chimica, i cui laureati trovano subito lavoro, sono semivuote, al contrario le facoltà di scienze della comunicazione (giornalismo, teatro, televisione) e quelle di scienze politiche sono strapiene e creano eserciti di disoccupati. Segno evidente che negli studenti italiani la voglia di impegnarsi con sacrificio in uno studio duro è minore di quella dei loro coetanei giapponesi. Come si fa poi a lamentarsi se la nostra disoccupazione (nel 2004) era all’8% e quella giapponese al 4,7%? O che l’Italia ha poca ricerca tecnologica, se mancano i giovani ricercatori?

Non so come potrebbe fare un governo per favorire una maggior austerità di vita, senza penalizzare i più poveri “che non arrivano alla fine del mese”, ma non c’è dubbio che andando avanti in questo modo, l’Italia non ha un gran futuro. Governino destra o sinistra, se non cambia “il sistema di vita italiano” non si va lontano. Quel che è peggio è che noi italiani, sempre in media, pur vivendo molto meglio di altri popoli, non siamo mai contenti. Lo sport nazionale è la protesta e la denunzia, il modello è “il signor NO”: no alla Tav, no al Ponte di Messina, no agli incineritori, no ai rigassificatori, no al Mose di Venezia, no all’aumento dell’età pensionabile, no alla liberalizzazione delle professioni e via dicendo.

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Forse sarebbe il caso di rilanciare lo slogan “Contro la fame cambia la vita”, inventato nel 1983 dal “Comitato ecclesiale contro la fame nel mondo” che si riuniva nella sede della CEI, di cui facevo parte, citato da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Redemptoris Missio” (N. 59). Ma a quel tempo aveva avuto scarsa risonanza anche negli ambienti ecclesiali. Credo che oggi, in un tempo di crisi economica e di stagnazione della nostra crescita, sarebbe più plausibile e comprensibile.

Piero Gheddo

marzo 2007

Pubblicato con il permesso del Pime
(18/7 R. Perin – Direttrice dell’Ufficio Storico del Pime)

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