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Cari amici di Radio Maria, debbo darvi una bella notizia: il 26 giugno prossimo padre Clemente Vismara sarà beatificato in Piazza Duomo a Milano. Con lui altri due Beati ambrosiani, don Serafino Morazzone, parroco di Chiuso (Lecco) e suor Enrichetta Alfieri, la mamma e l’angelo delle carceri di San Vittore a Milano.
Padre Clemente sarà il primo Beato della Birmania, un paese esteso più di due volte l’Italia con circa 50 milioni di abitanti, di cui meno di un milione sono cattolici. Non solo, ma è anche il primo missionario dei nostri tempi beatificato (morto nel 1988, 23 anni fa), che ha trascorso 65 anni in missione e rappresenta bene le virtù e i valori dei missionari nella storia del Pime e della Chiesa da tramandare alle generazioni future.
Nell’ultimo mezzo secolo la missione alle genti è cambiata radicalmente, sempre però continuando ad essere quello che Gesù vuole: “Andate in tutto il mondo, annunziate il Vangelo a tutte le creature”. Ma i metodi nuovi (responsabilità della Chiesa locale, inculturazione, dialogo interreligioso, promozione dell’uomo, ecc.) debbono essere vissuti nello spirito e nella continuità della Tradizione ecclesiale che risale addirittura agli Apostoli.
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Clemente non è solo uno degli ultimi anelli di questa gloriosa Tradizione. In Italia è uno dei missionari più conosciuti, una figura simbolica della missione alle genti, un mito, una leggenda, perché racchiude nei suoi 65 anni di missione quanto vi è di evangelico, di poetico e di avventuroso nella vita missionaria.
La mia catechesi si svolge in tre punti:
- Una sintesi della biografia di Clemente Vismara
- 65 anni in Birmania: una vita spesa per il Vangelo
- Il Beato Clemente, invocato “protettore dei bambini”
- Ecco in sintesi i 91 anni di padre Clemente
Clemente Vismara nasce ad Agrate Brianza (Milano) il 6 settembre 1897 da Egidio e Stella Annunciata Porta, a cinque anni rimane orfano della mamma e a sette anche del padre. Dagli zii è messo al Collegio Villoresi di Monza per fare la V elementare, il ginnasio e la prima di liceo. Ma nel 1913 entra nel seminario diocesano di Milano per fare il liceo e il 21 settembre 1916 è chiamato alle armi.
Qui incomincia la prima grande avventura di Clemente Vismara. Entra nell’esercito italiano come semplice fante dell’80° reggimento di fanteria, terza compagnia, “Brigata Roma” e tre anni dopo è congedato (9 novembre 1919) come sergente maggiore. Tre anni di guerra sempre in prima linea. Non parlava volentieri di questa esperienza militare, ma quando sono andato a trovarlo in Birmania nel febbraio 1983, l’ho intervistato a lungo e mi raccontava un episodio che già dice tutto di lui. Ecco il suo ricordo:
“Ho combattuto sul Monte Maio e sull’Adamello e ho maturato la vocazione missionaria durante la vita militare. Siamo arrivati in treno a Verona, ci hanno dato 130 cartucce a testa e mandato subito in prima linea. Il primo giorno abbiamo fatto 40 km a piedi, carichi come somari. Alla sera siamo arrivati ad Altavilla vicentina, eravamo stanchi morti, abbiamo dormito per terra l’uno accanto all’altro. Poi ho visto tante di quella battaglie e tanti di quei morti, che è meglio dimenticarli. La guerra è la degradazione completa dell’uomo. Ho visto tante di quelle sofferenze e di quelle cose sbagliate, che la mia vita ha preso un indirizzo preciso. Ho capito che solo per Dio vale la pena di spendere la vita.
“Un esempio. Mi avevano messo capoposto al fronte. Dovevo mettere le sentinelle, controllare le presenze e cose del genere. La prima notte, faccio un giro per controllare le sentinelle e trovo quella più vicina al nemico. Dove c’era davvero il pericolo di prendersi una pallottola da un momento all’altro, che tremava come una foglia. Un povero ragazzo pieno di freddo, di paura, piangente. Gli ho detto: “Vai indietro e va a dormire. Sto qui io al tuo posto”. Lui non voleva, ma l’ho convinto e sono stato di sentinella tutta la notte. Al mattino ufficiale mi dice: “Non potevi sostituirti a lui” e mi fa una ramanzina coi fiocchi. Poi mi dimette da capo-posto e mi dice: “Chi in guerra prova pietà, non è un buon soldato”. Al diavolo il buon soldato!”.
In questo fatto c’è già tutto il padre Clemente che conosceremo in Birmania: generoso, pronto a sacrificarsi per gli altri, insofferente di ogni regola e di ogni formalismo. Durante i tre anni di guerra viene nominato sergente maggiore e si guadagna tre medaglie al valor militare e una “Croce di guerra”.
Finita la guerra, nel 1919 ritorna nel seminario diocesano di Milano, ma non si adatta più alla vita tranquilla e regolata del seminario. Ha un carattere forte, con 22 anni finisce assieme a ragazzi di 16-18, rispettosi dei regolamenti. Rischia diverse volte di farsi mandare a casa. Nell’intervista che gli ho fatto in Birmania nel 1983 mi diceva:
“Ero un alunno discolo, irrequieto, capobanda nelle monellerie. Ogni tanto volevano mandarmi a casa perchè ne combinavo qualcuna. Ero considerato un ragazzo difficile, troppo vivace e poco disciplinato. Manifestavo una tendenza alla vocazione missionaria e i superiori mi hanno detto: “Vai pure perché i missionari ti mandano tra i selvaggi. Qui sei poco adatto alla disciplina ecclesiastica e ai sacrifici necessari per diventare prete”. E Clemente aggiungeva: “E pensare che in missione di sacrifici ne ho fatti tanti quanti bastano per una decina di preti!”.
Così Clemente entra nel Pime per gli ultimi due anni di studi teologici e anche nel Pime rischia di essere mandato a casa, sempre per lo stesso motivo, ma il rettore del seminario lo salva, garantendo per lui. Terminata la preparazione teologica, è ordinato sacerdote il 26 maggio 1923 e il 2 agosto padre Vismara parte in nave da Venezia per la Birmania. Ci sarebbe rimasto ininterrottamente per 65 anni fino alla morte avvenuta il 15 giugno 1988, salvo un rientro in Italia dal 30 gennaio al 22 dicembre 1957.
Giunge a Toungoo alla fine del settembre 1923, si ferma cinque mesi in casa del vescovo per imparare un po’ di inglese e ambientarsi in quel paese così lontano (clima, cibo, malaria, viaggi a cavallo, ecc.). A metà marzo 1924 parte a cavallo con padre Luigi Sironi, che era giunto con lui dall’Italia, e in 14 giorni di viaggio, il 30 marzo 1924 arrivano a Kengtung, sede centrale della missione della Birmania orientale che stava nascendo, alla quale Clemente era destinato.
Com’è nata la missione di Monglin
Prima di continuare la sua storia personale, ecco una rapida sintesi di come è nata la missione di Kengtung, in un territorio montagnoso e forestale della Birmania orientale oltre il fiume Salween, chiamato “il triangolo d’oro” per la coltivazione dell’oppio, che si estende come tutta l’Italia settentrionale fra Cina, Laos e Thailandia. Ai tempi di Vismara era ancora un regno indigeno sottomesso alla Corona d’Inghilterra ma governato dal loro re (o Saboà) e abitato da varie tribù bellicose (fra le quali gli Wa, i “tagliatori di teste”), spesso in lotta fra di loro, da bande di briganti e di contrabbandieri. Una regione a quel tempo quasi inesplorata. Nel 1912 erano giunti i primi tre missionari del Pime, fondatori della diocesi di Kengtung, col primo vicario apostolico mons. Erminio Bonetta (dal 1927 alla morte nel 1949). Nel 1916 arrivano le prime cinque suore italiane di Maria Bambina, che, accanto ai padri e ai fratelli, danno un’impronta materna alla Chiesa nascente.
Quando Clemente arriva a Kengtung nel 1924, i battezzati erano 500 e i catecumeni circa mille. Padre Bonetta voleva “occupare il territorio” fondando missioni come segno di presenza cristiana nelle varie regioni e tribù. Padre Clemente è destinato a Monglin, circa 125 km da Kengtung e quasi ai confini col Laos. Bonetta e Vismara vi giungono il 27 ottobre 1924 dopo sei giorni a cavallo portando con loro tre bambini orfani e trovando sul posto un catechista mandato da Bonetta mesi prima, che aveva costruito un capannone di fango e paglia, diviso in quattro stanze, con davanti una veranda protetta da una tettoia di paglia.
Vismara scrive in una lettera al superiore generale il beato padre Paolo Manna:
“Entrando la prima volta in quel capannone, mi sentii mancare il fiato: buio, umido, col pavimento in terra battuta pieno di animaletti. Non c’era nessun mobile, nemmeno una sedia. Mi sedevo su una delle casse portate da Kengtung. In mezzo a quella capanna un fuoco, attorno al quale mangiavamo e pregavamo seduti per terra. Era quasi peggio che al tempo della grande guerra, ma questa guerra l’avevo voluta io! L’ambientazione fu durissima, ma il cuore contento. Mi dicevo sempre: tu che hai fatto la battaglia dell’Adamello, tu che sei marcito nel fango della trincea, vuoi dire che non sei capace di adattarti alla Birmania?”.
Bonetta lo lascia a Monglin e ritorna a Kengtung. Consegna a Clemente 119 rupie e una ventina di scatole di sardine, dicendogli che, siccome non ci sono soldi, di non fare nessuna spesa. Clemente gli chiede: “E mangiare? Cosa mangio se non ho niente?”. Bonetta gli risponde: “Chi non lavora non mangia”. Così Clemente si trova tutto solo, con sette orfani da mantenere e povero in canna. Scrive in altra lettera: “Sono l’unico cristiano nel raggio di 100 e più chilometri, se voglio incontrarne un altro debbo guardarmi allo specchio”. I primi mesi in quella solitudine Clemente s’impegna a imparare la lingua shan e quella ikò, ascoltando le parole dalla gente e scrivendole su due quadernetti che portava sempre con sé.
Vive con i tre orfani portati da Kengtung, più altri quattro più grandicelli raccolti dal catechista. Si adatta a mangiare come la gente del posto e i suoi orfanelli: un po’ di riso e poi topi di foresta, cani e scimmie facili da catturare, vermi ed erbe di foresta, radici e cortecce tritate e bollite, pesci deil fiumiciattolo che passa da Monglin. Andava a caccia e poi cambiava la selvaggina con riso. In una lettera dei primi tempi racconta che una volta ha ucciso una tigre. Si era appollaiato su una pianta e aveva messo sul sentiero, dal quale nella notte passava la tigre, una capretta sgozzata. L’odore del sangue attira la tigre e Clemente la impallina!
Nell’intervista che gli ho fatto in Birmania nel 1983 mi diceva: “Allora ero giovane, robusto e mi piaceva il lavoro manuale. Ho disboscato la foresta attorno alla nostra capanna, ho fatto un orto e l’ho cintato per impedire agli animali selvatici di distruggerlo”; e aggiungeva: “Pregavo molto perché capivo che solo con l’aiuto di Dio avrei potuto sopravvivere in quella desolazione e isolamento assoluto”.
Ecco come Clemente racconta il primo annunzio di Cristo1: “Fin dall’inizio, il mio apostolato è stato tutto un girare a cavallo o a piedi per i villaggi. Avevo sempre con me i tre orfani, li educavo e loro mi aiutavano in tante cose. Se c’era da mangiare, mangiavamo tutti, se ce n’era poco, prima mangiavano loro e poi io. Portavo con me un po’ di medicine e poi cercavo di aiutare la gente in tanti modi: agricoltura, falegnameria, igiene, medicina, toglievo i denti che facevano male. Più avanti fondai le prime scuole. Quando avevo finito le medicine, il denaro e il cibo, tornavo a casa e mi riposavo un po’, poi ricominciavo. Volevo farmi conoscere, villaggio per villaggio, dicevo a tutti che volevo aiutarli e facevo il possibile per aiutarli davvero. Quando hanno preso confidenza, mi chiedono qualcosa del buon Dio. Quante volte, alla sera, seduti per terra attorno al fuoco a gambe incrociate, ho raccontato le storie di Gesù Cristo! Allora, a poco a poco, i più poveri, poi gli altri, decidono che la religione del prete è quella buona e chiedono di essere istruiti nella fede. Così è nata la Chiesa a Monglin”.
“Obbedisco altrimenti sbaglio”
I suoi 65 anni di missione li spende tutti in due distretti missionari:
- Prima a Monglin all’estremo est della missione, 32 anni dal 1924 al 1955. Fonda tre parrocchie: Monglin, Mongphyak e Kenglap con 8.000 cristiani e tutte le strutture necessarie.
Ho visitato Monglin nel 1983 e mi ha commosso vedere un grosso centro abitato quasi totalmente da cristiani, con tanti luoghi e costruzioni di cui Clemente aveva scritto nei suoi articoli: la chiesa, la casa del padre e quella delle suore, l’orfanotrofio maschile e quello femminile, l’ospedale, il centro pastorale, la casa dei catechisti, l’officina e la falegnameria, le scuole e le casette dei cristiani, i magazzini e le stalle. Commovente visitare la stanza da letto di Clemente, al secondo piano della casa parrocchiale, col suo letto e sul balcone l’ultima bara di legno tek che Clemente aveva costruito per se stesso. In diversi articoli scriveva che voleva essere sepolto in una bara di legno duro affinchè le termiti non lo mangiassero. L’ultima bara costruita a Monglin è rimasta sul balcone, tenuta come una preziosa reliquia. La mia vocazione missionaria (come di tanti altri) viene da padre Clemente Vismara: da giovane, quanto ho sognato i luoghi mitici di Monglin e dintorni! Adesso ci sono stato davvero e tutto mi sembra un sogno. Un bel sogno di cui ringrazio il Signore.
- Nel 1955, quando a Monglin aveva fondato una vera cittadella cristiana, portando alla Chiesa numerosi villaggi con 8.000 battezzati, il vescovo, mons. Ferdinando Guercilena, lo sposta all’estremo ovest della missione per fondare, partendo quasi da zero, una nuova parrocchia: a Mongping, fra gente tutta diversa. Clemente non capiva il perché di quello spostamento, però obbedisce e scrive a suo fratello: “Il vescovo mi manda in un posto difficile e io ho obbedito perché sono convinto che se faccio di testa mia sicuramente sbaglio”. Rimane a Mongping 33 anni, dal 1955 alla morte il 15 giugno 1988. Anche fonda due parrocchie, Mongping e Tongtà.
La sua fu una intensa vita di missione, tutta dedita alla sua gente, all’accoglienza degli orfani, alla difesa dei più deboli, dei poveri. Una vita sostenuta da una profonda fede ancorata alla preghiera, soprattutto all’adorazione eucaristica, e vivificata da un incrollabile buon umore, segno di cristiana speranza, ma anche di notevole equilibrio umano. Sapeva trasfigurare la povera (e a volte miserabile) realtà in cui viveva con un forte senso poetico e di fede. Le sue lettere e i suoi articoli manifestavano in pieno la sua personalità e la passione missionaria da cui era animato. Soprattutto colpiscono ancor oggi il suo ottimismo, la sua gioia di vivere, la sua bontà e carità verso tutti, il suo giudizio mai negativo sulle persone. Per lui tutti erano buoni, vedeva in tutti, anche nei più discoli, una scintilla di divino.
Un cammino travolgente verso la beatificazione
Il Beato Clemente Vismara è morto nel suo letto alle 20.15 del 15 giugno 1988 a Mong Ping circondato dall’affetto della sua gente che riconosceva in lui il padre, l’apostolo, l’evangelizzatore, il maestro. E’ sepolto davanti alla Grotta della Madonna di Lourdes da lui costruita. Il 21 giugno 1988, ad Agrate Brianza (Milano), si celebrano i solenni funerali presieduti dal vescovo ed ex-superiore generale del PIME mons. Aristide Pirovano, che inizia cantando il “Te Deum”.
Meno di un mese dopo, alla fine del giugno 1988, il Gruppo missionario della parrocchia di Agrate scrive una lettera al PIME per chiedere l’inizio della sua Causa di Canonizzazione. Il 25 marzo 1990, meno di due anni dopo la sua morte, nella piazza della chiesa parrocchiale di Agrate viene inaugurata la statua del missionario, con un bambino in braccio, opera del nipote, lo scultore Alfredo Vismara.
Il cammino verso la beatificazione è stato rapido, travolgente. Nel febbraio 1991, la E.M.I. pubblica la biografia di Clemente ampiamente diffusa, “ Prima del sole” di p. Piero Gheddo. Molte le richieste di beatificazione del missionario.
Nel febbraio 1993 tre missionari del Pime, i due reduci dalla Birmania padri Gianni Zimbaldi e Angelo Campagnoli, con padre Piero Gheddo, vanno in auto dalla Thailandia a Kengtung, chiamati dal vescovo mons. Abramo Than. Abbiamo parlato con preti, suore e cristiani della diocesi, incontrando testimonianze toccanti sulla santità di Clemente. Il vescovo dice: “Mai a Kengtung avevamo visto una cosa simile. Abbiamo avuto in diocesi tanti altri santi missionari del Pime, che hanno fondato la diocesi, compreso il primo vescovo mons. Erminio Bonetta. Per nessuno di essi si sono verificati questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. In questo io ho visto un segno di Dio per iniziare la sua causa di beatificazione”.
Nel 1995 inizia la pubblicazione il bollettino “Padre Clemente racconta” fatto dagli “Amici di padre Vismara” di Agrate con i ricordi del missionari, le grazie ricevute, le sue lettere e i suoi articoli: oggi il bollettino è inviato a circa 8000 devoti.
Il 18 ottobre 1996 il card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, apre ad Agrate il processo diocesano per la Beatificazione di Clemente Vismara, presieduto da mons. Ennio Apeciti; e lo chiude due anni dopo, ancora ad Agrate, il 6 settembre 1998. Tutto il materiale e le testimonianze giurate raccolti sono inviati alla Congregazione dei Santi a Roma. Nel giugno 2001 si consegna alla Congregazione dei Santi la “Positio”, biografia documentata del servo di Dio, firmata dal postulatore padre Piero Gheddo e dalla collaboratrice dott.sa Francesca Consolini.
Il 15 marzo 2008 Benedetto XVI firma il decreto che riconosce Clemente “Venerabile”, cioè che ha praticato in modo eroico le virtù evangeliche.
Poi due anni di intenso lavoro per l’approvazione del “miracolo” attribuito all’intercessione di padre Clemente, da parte della severissima Commissione medica della Congregazione dei Santi. Protagonisti di questo lavoro sono stati il vescovo mons. Than, e, con due viaggi in Birmania alla ricerca di documenti, mons. Ennio Apeciti e il dott. Franco Mattavelli di Agrate. La firma del Papa è il sigillo finale del lavoro fatto. E finalmente la beatificazione di Clemente il 26 giugno 2011, a 23 anni dalla sua morte, a 15 dall’inizio della Causa di beatificazione.
II) 65 anni in Birmania: una vita spesa per il Vangelo
All’inizio degli anni novanta, quando si voleva iniziare il cammino di Vismara verso la beatificazione, alcuni padri della Birmania da me interrogati dicevano: “Sì, Vismara era un sant’uomo, ma farlo diventare Beato è un’esagerazione”. E padre Osvaldo Filippazzi (1910-1996), che era stato con lui fino alla morte di Clemente, diceva2: “Se la Chiesa dichiara beato e santo padre Vismara, allora siamo santi anche tutti noi, che abbiano fatto la sua stessa vita”. Aveva ragione. Non solo molti missionari, ma molti cristiani, uomini e donne, sposati e non sposati, meriterebbero questo riconoscimento pubblico di santità. I beati e i santi non sono solo quelli proclamati dal Papa al termine di due processi canonici molto severi (uno diocesano e uno romano). Sono molti di più, infinitamente di più.
Perché questo e non gli altri? Perché anche nelle sterminate schiere di coloro che vivono con eroismo l’imitazione di Cristo, pochi hanno il carisma di “toccare il cuore della gente”, di lasciare un segno visibile e durevole di santità. Madre Teresa era già invocata “santa” durante la sua vita ed è stata rapidamente beatificata da Giovanni Paolo II. Morta nel 1997, beatificata nel 2003. Di suore sante ne ho incontrate tante nei miei viaggi missionari, più di quante si possa immaginare. Ma quando sono morte lo stesso bollettino della loro congregazione si è limitato ad un rapido necrologio: poche righe per 40, 50, 60 anni di vita spesso eroica.
Clemente Vismara meritava davvero questo rapido inizio e altrettanto rapida conclusione della sua Causa di Beatificazione, per lo spirito di fede e di preghiera, l’esercizio eroico delle sue virtù e l’amore appassionato e totalitario al suo popolo, uno dei più miseri della terra, nel quale lui vedeva la scintilla del divino e sapeva valorizzare al massimo la loro commovente umanità.
Vorrei raccontare come Clemente ha vissuto la missione e delineare il suo “spirito missionario”, la sua “santità missionaria”, esemplare per tutti i cristiani e specialmente per i missionari e le missionarie
Giudicava tutto alla luce della fede
Il fondamento del missionario Clemente Vismara era la fede nutrita di molta preghiera. Clemente non ha fatto miracoli né avuto visioni, però, come ha testimoniato un suo confratello, era “straordinario nell’ordinario”, cioè aveva una vita di fede, di speranza e di carità fuori del normale, eccezionale. Non emergeva per particolari doti di predicatore, costruttore, studioso o qualsiasi altra qualità che può creare ad un uomo una vasta fama. Anzi, la sua vita è stata quanto mai comune a quella di tanti altri missionari del Pime nella Birmania dei suoi tempi.
Dove sta la singolarità, la santità di padre Clemente? Non in quello che ha fatto, ma nel come l’ha fatto. Eccezionale è il suo spirito di fede, amore al prossimo specie ai più piccoli e poveri, dedizione e costanza nei suoi doveri, capacità di sacrificarsi, serenità, ottimismo, umiltà, pazienza, distacco dal denaro, fiducia assoluta nella Provvidenza; e anche profonda umanità, buon senso, equilibrio, saggezza in tutto, come ha dimostrato nei suoi 65 anni di vita birmana.
La fede illumina e spiega tutta la vita e la missione di Clemente Vismara:non una fede come fatto intellettuale, ma incarnata nel quotidiano, un sentimento appassionato che si manifestava nell’assoluta fiducia nella Provvidenza e nell’amore al prossimo più povero e abbandonato che incontrava.
Bella la testimonianza data dal suo vescovo mons. Abramo Than (3): “Padre Clemente Vismara fu un uomo di fede: vedeva le cose e gli eventi quotidiani con gli occhi della fede. La fede lo metteva in grado di vedere Dio in ogni creatura, specialmente nelle persone povere e abbandonate”.
Il padre Angelo Campagnoli, suo compagno di missione, ha testimoniato di lui (4): “Clemente era un uomo di fede pratica, aveva una visione soprannaturale della vita, un profondo abbandono in Dio. Tutto in lui era guidato dalla fede, che era alla base della sua forza e delle sue certezze. Era la fiducia che, nonostante tutto, sarebbe riuscito qualcosa di buono. La fede gli dava la forza di perseverare, anzi di cominciare sempre da capo, anche quando le delusioni si ripetevano. Di qui dunque la perseveranza…Era un uomo entusiasta della sua vocazione e, proprio perché ci credeva con passione eccezionale, riusciva a comunicarla. E credo che la gioia sia un’altra caratteristica, una virtù singolare di padre Vismara. Certo essa era probabilmente una dote naturale e su questa si riposava la sua vita spirituale, in lui non c’era distinzione fra le due sfere”.
Roberto Jeekham, teste che ha vissuto con padre Vismara a Mong Ping, ha testimoniato (5): “Ho trent’anni, sono nato nel 1967, sono un laico coniugato della parrocchia di Mong Ping. Sono venuto a Kengtung in quattro giorni di cammino, perché desidero contribuire alla canonizzazione di padre Clemente Vismara. L’ho conosciuto quando era a Mong Ping e io devo a lui la mia conversione. Infatti io ero animista ed egli mi ha condotto alla fede ed ora sono contento di essere cristiano cattolico. Per quanto io ricordo, padre Vismara era un vero maestro di fede. Ciò che mi convinse a credere in Gesù Cristo fu proprio la grande fede di padre Vismara e la sua grande carità. Egli pregava sempre e insegnava a pregare e ad avere fiducia in Dio, ricordandosi di Lui ogni giorno. Padre Vismara aveva una grande fiducia nella Provvidenza di Dio, nelle sue prediche non mancava l’invito a non perdere mai la speranza; a ricordarsi che Dio ci è vicino ogni giorno e non manca mai di darci ciò di cui abbiamo bisogno, soprattutto se cerchiamo di fare del bene agli altri, ai bisognosi e alle nostre famiglie.
“Egli era bruciato dal desiderio di salvare le anime e non era mai a riposo; era sempre in viaggio nei villaggi per sostenere la fede nei cristiani e andava nei villaggi degli animisti per annuziare il Vangelo. Lo faceva senza paura, con il sorriso sulle labbra, con il suo stile simpatico e disponibile e dare un aiuto a chiunque ne avesse bisogno, soprattutto se erano i piccoli. Io non ho mai sentito nessuno lamentarsi per aver avuto dei suggerimenti sbagliati da padre Vismara. Egli ascoltava e dava il consiglio giusto per ognuno. Era certamente ispirato da Dio, dalla fede e dalla sua preghiera”.
Molti fra quelli che hanno conosciuto padre Clemente testimoniano di questa sua gioia che veniva dalla fede e dalla visione soprannaturale delle cose.
Padre Rizieri Badiali, con lui a Monglin dal 1952 al 1954, ha testimoniato al processo diocesano (6): “Padre Vismara sopportava tutte le prove con gioia, perché diceva che se eravamo perseguitati voleva dire che tutto andava bene. Era la sua fede, una fede entusiasta, gioiosa, piena del desiderio di salvare le anime, una fede biblica, giacché la vita cristiana per lui era basata sui fatti, sul nostro essere conformi alla volontà del Signore… Questa fu la fede di padre Clemente, che lo sostenne per tutta la vita fino alla morte, con una grande allegria, una grande voglia di vivere che sentiva per sé e per i ragazzi che accoglieva appena poteva”.
Suor Battistina Sironi delle suore di Maria Bambina, per trent’anni con con Clemente a Mongping dal 1958 fino alla sua morte nel 1988, nella lunga intervista a padre Piero Gheddo il 17 febbraio 1993 a Kengtung ha detto (7): “Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava, nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.
Una fede “semplice ed entusiasta”
Com’era la fede di padre Clemente? Semplice ed entusiasta. Semplice, nel senso che non era profondo nella conoscenza dei misteri di Cristo e della Parola Dio, non faceva discorsi e ragionamenti. Dice suor Battistina: “Per lui tutto era semplice, facile, bello. Basta amare il Signore e la gente, non ci sono problemi”. Suor Battistina aggiunge: “Leggeva molto, tanti libri e riviste. I problemi li conosceva, ma poi era superficiale nel risolverli. Per lui non c’erano difficoltà, tutto era chiaro e semplice. Era fedelissimo alle cose importanti e basta”
Al processo diocesano a Kengtung suor Battistina ha testimoniato (8): “Non ho mai conosciuto un uomo con una fede così grande come padre Clemente. Fu veramente un uomo di preghiera, pieno di pietà e di carità verso tutti, specialmente i poveri e ancor più verso i piccoli. Quando non c’era niente da mangiare, lui mi diceva: ‘Lei stia qui con bambini che io vado in chiesa’. Andava in chiesa a pregare e certamente poco dopo arrivava il riso necessario. Tenete conto che c’erano già allora cento orfani a cui dare da mangiare ogni giorno! Pregava tanto. La sera soprattutto diceva il Rosario: non l’ha mai tralasciato neppure un giorno. Anche la Messa la celebrava ogni giorno con grande devozione e raccoglimento”.
Ciò che più mi ha colpito, nei cinque giorni che siamo stati assieme nel 1983 è stata la sua gioia di vivere e la sua inalterabile fiducia nella Provvidenza. Eppure, a 86 anni viveva in situazioni disastrose, fra guerriglia, briganti e contrabbando dell’oppio, circondato da tribali primitivi che morivano di morte violenta, di fame, denutrizione e malattie a 40-45 anni, col medico più vicino a 86 chilometri (con quelle strade!). Molti testimoni parlano della sua fedeltà alla preghiera, la Messa e l’adorazione eucaristica, il Rosario quotidiano, la meditazione e le buone letture lo mantenevano in contatto con Dio. La sua gente lo riteneva “un vero uomo di Dio”, di eccezionale fedeltà a Dio e alla Chiesa.
Padre Mario Meda, missionario a Kengtung dal 1958 al 1966, mi diceva9: “Padre Vismara diceva molti Rosari, secondo il consiglio di mons. Bonetta. “Seminiamo molti Rosari nei nostri viaggi e nelle nostre giornate, porteranno frutti di conversione”. So che padre Clemente diceva tuti i giorni il Rosario intero, 150 Ave Maria e compiva tutti i giorni le pratiche di pietà dell’antica tradizione sacerdotale. Viveva con fedeltà la sua vocazione, senza complicazioni, non sognava cose diverse, era libero da qualsiasi genere di complessi, credo non abbia mai avuto problemi di fede o di difficoltà ad essere un buon cristiano, prima che un buon sacerdote e missionario”.
Un catechista di padre Clemente, Anselmo U, ha dichiarato al tribunale del processo per la beatificazione: “Padre Vismara aveva sempre in mano la corona e molte volte mi chiedeva di recitare il Rosario con lui. Abbiamo sopportato assieme molte fatiche: andavamo a visitare i villaggi lontani e spesso dovevamo dormire sotto gli alberi e sotto le stelle, perché non eravamo ancora arrivati. Eppure padre Vismara era sempre sereno e sorridente. Non l’ho mai visto arrabbiato. Qualche volta si ammalava ed era molto debole: allora mi diceva di pregare e far pregare la gente del villaggio in cui ci trovavamo”.
Padre Clemente Hla Shwe, un suo orfano, diceva al tribunale diocesano per la beatificazione: “Era certamente un uomo di preghiera, un uomo di grande fede, direi di una fede sorridente, perché sorrideva sempre. Comunicava tanta gioia ed entusiasmo a chiunque lo accostasse. Anche a me, quando ci incontravamo, mi esortava sempre ad essere un prete zelante nel lavoro apostolico, anche pieno di gioia e di sorriso”. Quando uno dei suoi ragazzi gli taglia i capelli dice a Clemente: “Sì, sei bello!”, lui pensa un po’, sorride e dice: “Ma noi la bellezza l’abbiamo dentro!”10.
Clemente è l’autentico missionario a servizio dei più poveri, impegnato in campo educativo e sociale, capace di donare la vita per gli altri, ma anche, e prima ancora, testimone e annunciatore di Gesù Cristo con la sua stessa vita. Nessuno ha mai pensato che fosse un operatore sociale, un organizzatore di consenso politico, un propagandista di qualsiasi ideologia. Per tutti era un prete, un uomo di Dio.
Nella preghiera per la beatificazione di padre Clemente diciamo: “Fa, o Signore, che abbiamo anche noi quella fede semplice ed entusiasta che è stata l’anima di padre Clemente e dei suoi 65 anni di missione”. Suor Mary Paul di Maria Bambina, interrogata nel 1997 a Kengtung quando aveva 32 anni, testimonia11: “Padre Vismara pregava moltissimo e quando gli chiesi perché ogni giorno pregasse tanto, mi rispose che doveva pregare tanto perché c’erano tanti bisogni, perché noi bambini eravamo tanti, perché i benefattori erano tanti, perché i cristiani della missione erano tanti e tutti avevano tanti problemi. E allora lui pregava. Noi eravamo sicuri che, se non era in casa a leggere o a scrivere o al lavoro come tutti noi, lo avremmo trovato in chiesa a pregare. Questo lo sapevano tutti…”.
Che bel ricordo di Clemente! Non solo perché pregava molto, ma perché ha saputo trasmettere col suo esempio quella “fede semplice ed entusiasta” che era l’anima della sua vita. Questa giovane suora che ricorda le parole precise del missionario, dimostra anche lei di aver ricevuto una fede semplice, non complicata. Clemente la convinceva fin da bambina: è cresciuta avendo ben chiaro nell’animo e nel cuore il rapporto fra le necessità dell’uomo e il bisogno di ricorrere a Dio.
Che vuol dire “la fede semplice ed entusiasta di padre Clemente”? Una fede non complicata, ma quasi elementare, che capiscono anche i bambini; e vivere la fede con entusiasmo, cioè in uno spirito di ringraziamento e di donazione a Dio per averci fatto questo grandissimo dono. Noi chiediamo a Dio non solo una fede semplice, ma anche entusiasta: cioè capace di commuoverci, di impegnarci a fondo, anche con sacrificio, a servizio di Dio e della Chiesa. Non una fede seduta, in pantofole, che non disturba il nostro tran-tran quotidiano, ma che ci rende disponibili a rinunzie e sofferenze per fare il bene e fuggire il male. Se non c’è entusiasmo nelle cose che facciamo o in cui crediamo, non c’è nemmeno soddisfazione, non c’è il premio della gioia e della serenità di spirito.
Fiducia assoluta nella Provvidenza
La forte fede di padre Clemente è provata dal suo distacco dal denaro e dalla sua vita povera. Suor Battistina raccontava che non aveva mai tenuto conto dei soldi che aveva: spendeva tutto per gli altri e la Provvidenza gli mandava sempre il necessario. Questo il suo sistema economico: aveva un cassetto chiuso a chiave, in cui metteva una borsa coi soldi che riceveva (la banca più vicina a 120 km) e quando ne aveva bisogno per comperare riso o medicine tirava fuori il necessario e ce n’era sempre. Suor Battistina era convinta che il buon Dio aggiungesse sempre qualcosa al momento giusto, perchè non erano mai rimasti a secco del tutto. “Non ho tempo per fare i conti”, diceva. Semplicemente, si fidava della Provvidenza e aiutava anche i confratelli e i sacerdoti locali che erano in difficoltà per le loro missioni.
“Per sè non comperava mai nulla, diceva la suora. Aveva un paio di scarponi da montagna che gli è durato tutta la vita. Quando è morto abbiamo fatto fatica a rivestirlo perchè nella sua stanza non aveva nulla al di fuori del normale cambio di biancheria, di pantaloni e di veste da prete. Per sé non comperava mai nulla. Aveva un vecchio paio di scarponi da montagna portati dall’Italia, l’unica volta che tornò in patria nel 1957. Guai a dirgli che doveva comperarsi un paio di scarpe nuove!Aveva maneggiato tanti milioni, ma erano finiti tutti in riso, medicine e vestiti per i suoi bambini e i poveri. Padre Clemente non rifiutava mai nessuno. Venivano da lui i rifiuti della società: lebbrosi, oppiomani, ladri scacciati dai villaggi, vecchie senza famiglia, pazzi, sciancati, deformi, anche famiglie che fuggivano dalle zone di guerra. Il suo vanto era di dar da mangiare e di ospitare tutti”. Nella miseria di quella regione, mangiare ogni giorno era la prima urgenza per tutti.
A Dio si affidava con semplicità e speranza e ripeteva il detto manzoniano: “La msempre provveduto a tutto. Significativo quanto afferma il testimone Moses Lee Jin nel processo diocesano a Kengtung12: “Quando i suoi amici chiesero a padre Clemente come potesse procurarsi il denaro per nutrire i suoi orfani, egli disse: E’ Dio che li nutre, non io. E’ Dio che manda il denaro per loro”.
Diversi altri testimoni sostengono che nemmeno nei momenti più difficili egli non perse mai la speranza e la fiducia in Dio. Alcune vicende descritte nella “Biografia documentata” (nella “Positio”) presentano infatti Clemente in situazioni altamente drammatiche: durante la seconda guerra mondiale e dopo: durante la guerriglia, egli si trovò solo a proteggere il villaggio, la sua gente, le suore e non gli era ignota la morte di altri suoi confratelli uccisi in analoghe situazioni. Ma lui era sicurissimo che Dio vegliava sulla sua gente, sui suoi orfani e sui suoi poveri.
Un confratello mi ha detto: “Vismara non è mai invecchiato”. E’ vero. Quando sono stato con lui in Birmania cinque o sei giorni (nel 1983), aveva 86 anni e mi stupiva la sua gioia di vivere, il sorriso, la facilità di fare battute. Non voleva parlare della sua vita passata, che io già conoscevo dai suoi articoli, voleva parlarmi del suo futuro e del futuro della sua missione di Mongping. Non si era mai lasciato indurire dalle difficoltà, dalle sofferenze e dalle disillusioni della sua lunga vita.
Lui stesso ha scritto13: “Io non sono mai invecchiato; credo di essere passato attraverso tre successive giovinezze. L’aurora: giovinezza di sogni, spensieratezza, irrequieta ed anche incosciente. Il meriggio: giovinezza di sacerdote, fattiva, laboriosa, faticosa, ma soddisfacente. Il tramonto: giovinezza pacata e lenta, meno rumorosa, ma più efficace, forse più umana e comoda… La vita non può fiorire se rimane rinchiusa nei suoi angusti limiti; essa si rinnova e si moltiplica offrendola. Ho creduto nell’amore ed ho amato senza pretesa di essere riamato. Disillusioni e malinconie non so cosa siano”.
III) Il Beato Clemente, invocato “Protettore dei bambini”
Clemente Vismara è invocato “Protettore dei bambini” e diverse grazie, attribuite alla sua intercessione, riguardano i minori. Anche il miracolo approvato per la sua beatificazione. Lo racconto brevemente.
Joseph Tayasoe di 10 anni, dell’orfanotrofio di Mong Yang, il 12 febbraio 1998 è caduto a testa in giù da un albero maestoso, sul quale era salito con altri ragazzi per raccogliere dei frutti, da 4-5 metri di altezza. Batte la testa su un pietrone che esce dal terreno inondandolo di sangue e rimane in coma per tre giorni, con trauma cranico, ferita lacero-contusa al cuoio capelluto e frattura della scatola cranica.
Il bambino è portato nell’ospedaletto di Mong-Yang da un uomo con una motoretta e una ragazza dietro che teneva Joseph con la testa sfondata. I segni del coma profondo erano visibili anche all’esterno: midriasi (dilatazione abnorme) della pupilla dell’occhio sinistro, incontinenza sfinterica vescicale, sangue che usciva dal naso e dalle orecchie, coma senza nessuna variazione per tre giorni completi. E’ stato curato cucendogli il cuoio capelluto con 12 punti, col cortisone, una terapia contro l’edema e nutrito con fleboclisi. Il ragazzo è stato adagiato in letto. Il medico ha avvisato i parenti che la situazione di Joseph era “hopeless”, cioè senza speranza.
Dopo preghiere a padre Vismara, il mattino del quarto giorno Joseph si sveglia improvvisamente e dice alla mamma che lo assisteva: “Mamma, cosa faccio qui? Dammi da mangiare, ho fame!”. La mamma, poverina, gli dà da mangiare, contenta che il figlio si è risvegliato. E’ stata una guarigione improvvisa, totale e permanente.
“I ragazzi sono il tesoro del missionario”
Sono stato postulatore della Causa di Clemente fino al 2009 (a 80 anni bisogna dare le dimissioni), ho conoscenza di molte grazie ricevute per sua intercessione, quasi tutte per i figli, i fidanzati, gli sposi che attendono un figlio e lo ottengono, che vorrebbero separarsi e poi si ricongiungono, ecc. L’amore di Clemente per i bambini e le bambine orfani o abbandonati si manifestava soprattutto nel fatto che ne voleva prendeva tutti quelli che gli erano offerti e quando alcuni orfani andavano nei loro villaggi in vacanza diceva di non di portare qualcun altro con sé.
Suor Battistina mi ha detto che a volte diceva a Clemente14: “Padre, non prenda più ragazzi e ragazze, ne abbiamo già troppi, come facciamo a mantenerli tutti?”. Lui le chiedeva: “Suora, oggi ha mangiato?” e lei rispondeva di sì. “Allora stia tranquilla che mangerà anche domani”. Quando tornava da qualche visita ai villaggi sui monti, Clemente andava da Battistina e le diceva: “Superiora, ho qui un bel regalo per lei”. “Non voglio i suoi regali”, diceva la suora, che così continua: “Ma lui me li faceva lo stesso ed erano sempre orfani, emarginati, bambini deformi, vecchie sdentate, mendicanti, oppiomani, ladri scacciati dai villaggi (a volte gli tagliavano un dito per punizione), anche famiglie che fuggivano dalle regioni di guerra o occupate dai comunisti, senza nulla. Insomma, tutti i rifiuti della società… Anche poco prima di morire, mi raccomandò di non rifiutare nessun bambino e io ho mantenuto questa promessa. Fino ad oggi egli dal Cielo ha provveduto ai suoi piccoli”.
Ho pubblicato il volumetto “Clemente Vismara, il santo di bambini”15, una raccolta, incompleta ma significativa, dei suoi articoli sui bambini e ragazzi con i quali è vissuto nei suoi 65 anni di Birmania (1923-1988). Su Vismara ci sono altri libri (16), ma questo mette in risalto come educava gli orfani e i bambini abbandonati e può insegnare qualcosa anche a noi, che viviamo in un ambiente così diverso dal suo, come educare i minori è uno dei problemi più ardui e difficoltosi del nostro tempo.
Questi testi su bambini e orfani rivelano più d’ogni altro lo spirito con cui padre Vismara evangelizzava, rispettando l’uomo, e anche il bambino, nelle sue libere scelte, nella sua maturazione psicologica e nel cammino di fede. Questo era il “metodo missionario” usato in passato (in parte anche oggi) per fondare la Chiesa in Birmania: raccogliere orfani e bambini abbandonati, rifiutati dai villaggi per mille motivi, educarli, istruirli, farne dei buoni cittadini e possibilmente buoni cristiani.
“Data la durezza dei vecchi e la docilità dei giovani, ho raccolto più ragazzi che ho potuto. Sono tutti monelli, figli di pagani, con loro me la intendo così bene che mi son divenuti necessari. Essi sono la mia famiglia, i miei genitori, tutti i miei parenti, tutta l’Italia intera; con loro non ho bisogno di cercare altro affetto, con loro sono felice e di tutto risarcito. Altrettanto poi io sono per loro, credo”. Così scriveva Clemente (17). Dai giovani nasce la Chiesa. “Queste birbe, scriveva, divorano me, ormai grigio, mangian del mio. Tutta la mia vita è spesa per loro. Mi mangeranno vivo fino a che morrò: ma da questi teneri, cari, amati e spennacchiati virgulti, sorgerà (non ne dubito) la nostra Chiesa!” (18).
Nelle lettere e negli articoli di Clemente ci sono espressioni di gioia, di tenerezza verso i suoi bambini e ragazzini. “Questi orfanelli sono la mia calamita, non saprei separarmi da loro benché sia un uomo vicino al tramonto. Loro vivono perché io sono vivo e io vivo per donare loro da vivere. Siamo indispensabili: io sono utile a loro, loro necessari a me e ci vogliamo bene… Non duecento, ma duemila ne vorrei con
me. Voi siete il mio futuro!” (19). “Poveri ragazzi, quanto sono poco curati e maltrattati!…. Perdendo i genitori ricevono per cibo percosse e busse” (20).
Il suo metodo educativo era basato sull’amore gratuito. Si mette sullo stesso piano dei suoi piccoli, nonostante l’abisso culturale, religioso, economico che c’era fra lui e loro; è anche lui un poveretto, un nullatenente, un orfano che non ha più nessuno. Se un bambino gli dice che ha perso papà e mamma, non ha più famiglia, lui replica: “Anch’io sono come te, non ho più nessuno. Vieni, ci vorremo bene”.
La vera testimonianza evangelica di padre Vismara nel mondo pagano è stata di amare senza pretendere di essere amato, donare senza aspettarsi riconoscenza. U Sai Lane, testimone buddhista al suo processo di canonizzazione e per trent’anni suo grande amico a Mongping, ha dichiarato: “Quando io gli dicevo: ‘Padre Vismara, tu dai da mangiare a tanti bambini, ma quando diventeranno grandi, loro non ti daranno niente’; lui rispondeva: ‘Io faccio queste cose non per me, ma solo per Dio. Io lavoro per Dio. A me basta amarli come li ama Dio. Basta che siano brave persone, che credono in Dio, che pregano e cercano di essere buoni’” (21).
Non si può educare se non si ama
Padre Vismara amava tutti, non escludeva nessuno: l’uomo era al centro della sua attenzione; l’uomo senza “se” e senza “ma”, in modo che parrebbe persin esagerato. Come quando la sua carovana incontra per strada i briganti che portano via tutto, anche il cibo che avevano con sè per il viaggio. Lui poi commenta: “Poveretti, anche loro avevano fame!” (22).
Quand’è con i suoi piccoli, anche i più piccolini e ammalati, diventa il nonno affettuoso, ragiona con loro, parla loro come se fossero adulti. Gli portano un bambino di pochi mesi gravemente denutrito; lui lo accoglie e racconta: “Gli misi in bocca un cucchiaino di zucchero, non sorrideva. Gli scendevano le palpebre a metà occhi, pareva un vecchio senatore del Campidoglio. Di bello aveva i dentini bianchi come l’avorio… Sicuro, bimbo mio – gli dico – la vita è seria, ma questo non lo sapeva tua madre, come lo puoi sapere tu? A ogni modo la carestia per te è passata, soffrirai di meno. Qui ci sono tre suore, ti faranno da mamma. E per incominciare a farti star bene, domani, che è S. Marco, ti battezzerò e ti chiamerò Marco… Marco fu figlio di Dio per 4 mesi e mezzo, fu soldato di Cristo per un sol giorno, giacché gli amministrai la S. Cresima; ora da tre giorni vive in Paradiso. Riposa in pace, Marco,tu hai sofferto tanto. Mai né baci, né carezze sfioravano la tua pallida guancia. Una suora ti cullava e tu non lo sapevi. Maternamente una bianca mano di vergine ti non lo sapevi. Prega per noi, Marco, prega per noi che ci par di sapere!” (23).
Clemente aveva un bel carattere: sempre sereno, fiducioso, ottimista. Dava fiducia a tutti i suoi ragazzi, compresi i più discoli. Era sicuro che anche dagli elementi che a volte sembrano irrecuperabili, Dio può trarre germi di Vangelo. Ci sono dei racconti bellissimi, che mettono in risalto la sua fiducia nella capacità di redenzione dei suoi orfani, che venivano da famiglie e da situazioni spesso disumane, di degradazione a causa dell’oppio e della miseria estrema. Clemente vedeva in tutti l’uomo, la donna, creati da Dio “a sua immagine e somiglianza”. Era un vero educatore perché partiva da questa visione di fede e di amore. I suoi racconti dimostrano quanto diceva San Giovanni Bosco: “Non si può educare senza amare”. Dava la vita per i suoi “orfanelli” e quindi era nella situazione migliore per amarli, per condividere i loro pensieri e sentimenti, per capirli fino in fondo.
Quando nella sua truppa c’è un ragazzo (“Ciau”) che lui stesso definisce “proprio cattivo”, tutti dicono di non lasciarlo perdere, è tempo perso tentare di educarlo. Clemente ha pazienza e confida nell’aiuto di Dio ma anche nei sentimenti buoni che albergano in ogni uomo. Lo tratta bene, se lo fa amico, rispetta la sua dignità e libertà e ha poi la consolazione di vedere che anche Ciau è capace di un grande gesto di amore verso il missionario. Quando è ammalato e sospira di avere un po’ di limoni, ma a Mongping non si trovano, Ciau scappa e va di corsa a sei chilometri di distanza dove c’è una coltivazione di limoni, per portargliene un tascapane pieno. Il maestro lo prende a scapaccioni perché è scappato e gli dice che il missionario gli darà il resto. Ma Ciau dice a Vismara: “Battimi pure, ma io i limoni li ho qui, e sono andato a prenderli per te”. Dove li hai presi? “Sulla pianta” (24).
“Il prete che sorride sempre”
Il Beato Clemente Vismara trasmetteva i tratti caratteristici della sua personalità: l’amore alla vita e la gioia di vivere, prorompente e straripante pur nelle situazioni più drammatiche. La gente e i suoi ragazzi lo chiamavano “il prete che sorride sempre”. Scrivendo la biografia di Clemente e pubblicando i suoi articoli e le sue lettere, spesso mi sono commosso e mi son chiesto come si potrebbe caratterizzare, con una sola parola, tutta la sua vita: “Il santo dei bambini” o “Il santo della carità” o “Il santo della gioia” o “Il santo della Provvidenza”?
Un lettore della sua biografia, che soffriva di depressioni, testimonia: “Dopo la lettura di ‘Prima del sole’, il sole rinasceva anche in me. La gioia era in ogni pagina: il sacrificio, l’isolamento, le difficoltà assumevano un aspetto positivo perché visti e vissuti con una carica vitale sorprendente. Si scopre che vivere il cristianesimo non significa essere tristi. La gioia è forse il carisma più avvincente di padre Clemente, gioia che scaturisce dal saper scoprire il lato positivo di ogni cosa, dal dimenticare se stessi per vivere generosamente per gli altri, dal vivere la fede che capovolge i valori effimeri della nostra società materialista ed egocentrica”.
Suor Battistina Sironi, con Clemente a Mongping dal 1958 fino alla sua morte nel 1988, il 17 febbraio 1983 mi ha detto a Kengtung (25): “Era sempre allegro. Quando aveva dei fastidi cantava nella sua casa. Allora noi suore chiamavamo i bambini e li portavamo in chiesa a pregare per il padre Clemente, che aveva grane grosse”.
Suor Carmelina Teruzzi delle suore di Maria Bambina, missionaria in Birmania dal 1951 al 1966, ha testimoniato al tribunale diocesano: “Non ho mai sentito nessuna suora lamentarsi di padre Vismara. Si lamentavano di qualche altro missionario ogni tanto, mai di padre Vismara. Tutti ne dicevano bene. Nulla fu mai detto di lui né per la morale, né per il comportamento, né per il linguaggio. Padre Vismara era molto sensibile… Tutti lo vedevano bene e ne avevano stima perché aveva un modo di fare gioioso e ilare, senza scadere in recriminazioni e tristezze. La sua gioia era sempre colma di estrema finezza e delicatezza. So che la gente lo amava perché era un uomo che cercava di fare del bene a tutti e aiutava tutti” (26).
Un’altra suora di Maria Bambina, Patrizia Zucchini, missionaria in Birmania dal 1948 al 1966, testimonia: “Non offendeva mai nessuno e cercava di portare la pace. Era un pacificatore, sempre pronto a perdonare… Colpiva il suo atteggiamento sempre gioioso, della gioia del fanciullo, capace di umorismo e barzellette. Il tempo passava veloce quando si stava con lui. Era una persona forte di amore di Dio, carico di fede e di amore, una bella personalità. Certo, anche gli altri missionari erano bravi, zelanti, pieni di fede, ma padre Vismara lo era in modo diverso dagli altri: era eccezionale” (27).
Evangelizzare vuol dire insegnare a lavorare
Cosa insegnava anzitutto Clemente ai suoi ragazzi? A leggere e scrivere? No! L’igiene e le buone maniere? No. L’obbedienza e la disciplina? No! Il catechismo? No!…. Insegnava anzitutto a lavorare! L’ambiente pagano (lo dice nelle sue lettere) rifiuta il lavoro fisico: l’ideale è vivere senza lavorare (non siamo un po’ pagani anche noi, nella nostra società, come si dice, “post-cristiana”?).
Nel 1924 a Monglin, si trova in un ambiente umano ancora vergine, non toccato dal mondo moderno, con popolazioni che vivevano in modo miserabile, analfabeti, soffrivano la fame, erano vittime di guerriglie e brigantaggi, di tante malattie, di sistemi sociali oppressivi, ecc. La media della vita umana non era superiore ai 35 anni! Eppure pensavano di vivere nel miglior mondo possibile. Si chiede cosa può fare per annunziare Gesù Cristo in modo concreto: come annunziare la “vita nuova in Cristo” in modo che tutti capiscano e che i suoi orfani siano educati a seguire il suo esempio? Si rende conto che insegnando una “dottrina nuova” non basta.
Nel racconto “Evangelizzare, cioè insegnare a lavorare” (28), Clemente scrive spesso: il cristianesimo ha nobilitato il lavoro dell’uomo; quindi, prima di insegnare il segno della Croce, bisogna insegnare a lavorare. Clemente scrive: “Seguendo la mentalità pagana questa gente montanara non si svilupperà mai. E’ necessario suonar la sveglia… Sono venuto nella persuasione che la cosa principale, che racchiude tutte le altre, anche quelle spirituali, è che debbo insegnare ai miei ragazzi a lavorare. Tutto il resto verrà da sé…. Io voglio il lavoro non per ricavarne profitto…. Facciano quindi stecchini o zappino la terra, per me è tutt’uno: basta che siano occupati e lo siano tutto il giorno. Ottenere questo da gente in cui è innata la libertà selvaggia delle foreste, ove, se non si reca tanto danno a terze persone, si fa o non si fa tutto quello che si vuole, è affare di un gigante di… pazienza. Anche Giobbe la perderebbe!” (29).
Non servono parole, esortazioni o minacce. Bisogna dare buon esempio e tirarli dietro: c’è “da rifare tutto l’uomo”. Ecco il Clemente spaccalegna, coltivatore diretto, ortolano, falegname, muratore, infermiere, direttore di scuole e di pensionati per orfani, facchino, ecc. Si lamentava della naturale indolenza e del fatalismo caratteristici della sua gente, portata al disimpegno. Con i suoi ragazzi cercava di stimolarli, di “dare la sveglia” come ripete spesso. Il lavoro è il primo indispensabile passo per diventare cristiani.
Uno dei suoi impegni, proprio come missionario di Cristo è stato di lavorare materialmente, anche quando non ne aveva più le forze e soffriva di mal di schiena e di sciatica: spaccava la legna, coltivava l’orto, si impegnava nella falegnameria, ecc.
Voleva insegnare a tutti la dignità del lavoro e l’impegno che ciascuno ha di lavorare. Nella società pagana, scrive più volte, il lavoro manuale è disprezzato, lavorano le donne, i bambini, gli schiavi e i prigionieri. L’uomo adulto, nell’ambiente conosciuto da Clemente, è in genere fiacco, ozioso, non ha voglia di lavorare. Venivano da lui poveracci a chiedere da mangiare o un po’ di soldi. Clemente dava a tutti, ma chiedeva in cambio un po’ di lavoro. Ad uno che veniva a chiedere l’elemosina dice: “Se lavori, invece di una rupia te ne do quattro. Fa pure quel lavoro che vuoi, a me basta poter dire di non darti i soldi per niente”. “Di lavorare non ne ho mai avuto voglia”, risponde l’altro. Allora il geniale Clemente inventa una trappola che mette in crisi l’ozioso. Non la rivelo per non togliere il gusto di apprenderla dalle sue stesse parole nel corso del volume “Clemente, il santo dei bambini”.
In una lettera ai ragazzi e ai giovani per il “Congressino missionario” del Pime a Milano nel settembre di ogni anno, li invita a seguirlo e scrive: “Io vi attendo, ragazzi, a braccia aperte; andremo pel mondo a rendere felici gli infelici. Raccoglieremo tutti senza chiedere il nome, senza chiedere la fede, nulla chiederemo: a noi basta lenire il dolore, fugare la miseria, donare la speranza, la vita” (30) .
Stando con lui in Birmania nel 1983, mi venivano in mente le parole di Gesù: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. Aveva 86 anni e non voleva parlare del suo passato, ma del suo futuro, mi diceva di quel che aveva ancora da fare. I suoi confratelli dicevano: “E’ morto a 91 anni senza mai essere invecchiato”. Aveva ancora l’entusiasmo dei suoi primi anni di missione.
1 Vedi “Mondo e Missione”, gennaio 1985, pagg. 36-37.
2 Vedi “Mondo e Missione”, ottobre 1998, pag.35.
3 Positio, pag.58.
4 Positio, pag. 53-55..
5 Positio, pagg. 90-91):
6 ) “Positio”, pag. 219.
7 ) “Mondo e Missione”, ottobre 1988, pag. 40.
8 Positio, pagg. 123-124.
9 “Prima del sole”, pag. 191.
10 “Italia Missionaria”, settembre 1938.
11 “Positio”, pag. 194.
12 “Positio”, Summarium”, pag. 85.
13 “Biografia documentata” nella “Positio”, Capitolo VII, pag. 144.
14 Vedi “Mondo e Missione”, ottobre 1958, pag. 40.
15 EMI (editrice Missionaria Italiana), 2004, pagg. 158, Euro 10,00.
166) P. Gheddo, “Prima del Sole – L’avventura missionaria di padre Clemente Vismara”, EMI 1998 (terza edizione, pagg. 222); C. Vismara, “Il bosco delle perle”, EMI 1997 (terza edizione, pagg. 156); C. Vismara, “Lettere dalla Birmania”, San Paolo 1995 (pagg. 239). Oltre ad altre minori, vanno ricordate le due pubblicazioni edite dalla Congregazione dei Santi per la causa di canonizzazione: la “Copia pubblica” del processo diocesano in nove volumi (formato A4) per 3.480 pagine complessive con tutti i documenti relativi alla causa (testimonianze, lettere e articoli di Vismara, ecc.); e la “Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis” (Roma 2001, pagg. 552, formato A4), biografia documentata, con la riproduzione di varie testimonianze e suoi testi, preparata dalla collaboratrice del postulatore, dott.sa Francesca Consolini; quest’ultima opera ancora acquistabile presso il postulatore padre Piero Gheddo o presso gli “Amici di padre Clemente Vismara” ad Agrate Brianza, al prezzo di Euro 50 la copia cartonata; Euro, 65,00 la copia rilegata in rosso.
17 ) “Italia Missionaria”, febbraio 1929.
18 ) “Italia Missionaria”, novembre 1962.
19) Lettera di Vismara a padre Fedele Giannini, Mongping 8 dicembre 1981 (Copia pubblica, vol. V, pagg. 2029-2030).
20 ) “Italia Missionaria”, gennaio 1928.
21 ) “Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis Clementis Vismara”, Roma 1999, pag. 155.
22 ) Però ci sono anche altre testimonianze come quella di suor Natalia Nale, suora della Divina Provvidenza che accompagnava il vescovo mons. Than in visita a Mongping e a volte p. Clemente e li riaccompagnava a Kengtung: “Una volta fummo assaliti dai briganti, che ci portarono via tutto quello che avevamo. Padre Vismara intervenne con energia, dicendo loro che, se ci rubavano per avere cibo e vestiti, non dovevano fare questo a danno della povera gente e che egli stesso avrebbe provveduto a dare loro cibo. Disse queste cose con coraggio, dando una leggera sberla sul volto del capo dei briganti. Essi rimasero così impressionati dal tono autorevole di padre Vismara e dalle sue parole convinte, che, tutti confusi, restituirono ogni cosa a padre Vismara, il quale pretese gli promettessero di non fare più cose del genere” (“Positio”, pag. 185).
23 ) “Italia Missionaria”, aprile 1953.
24) “Italia Missionaria”, gennaio 1939; Copia pubblica, IV, 1292.
25 ) “Mondo e Missione”, ottobre 1988, pag. 40.
26 ) “Positio”, pag. 233.
27 ) “Positio”, pag. 243.
28) “Le Missioni Cattoliche”, aprile 1939.
29 ) “Le Missioni Cattoliche”, aprile 1939.
30 ) “Italia Missionaria”, novembre 1956.
Padre Gheddo su Radio Maria (2011)
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