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intervista di Matteo Spicuglia a P.Piero Gheddo
ROMA – Sacerdote da 53 anni, oltre 70 pubblicazioni
tradotte in più lingue, la consulenza chiesta da papa Wojtyla per l’enciclica
del 1990 “Redemptoris missio”, una vita intera in giro per il mondo per
raccontare al grande pubblico le realtà missionarie. Padre Piero Gheddo dal 1994
è il direttore dell’Ufficio storico del Pontificio istituto missioni estere a
Roma, dopo aver diretto per 35 anni la rivista “Mondo e Missione”. Un’esperienza
che ha gli ha permesso di conoscere a fondo Paesi e contesti, compresa l’America
Latina e il Brasile dove padre Gheddo arrivò per la prima volta nel 1966. “In 50
anni la situazione è cambiata moltissimo, – spiega a Korazym.org – la Chiesa
locale è cresciuta e comincia a sentirsi matura, dopo aver superato il modello
coloniale del dopoguerra e arginato anche alcune spinte delle Teologia della
Liberazione”.
Cosa intende quando parla di Chiesa coloniale?
“Faccio riferimento, per esempio, alla situazione del Brasile degli
anni ’50, quando la Chiesa sostanzialmente era radicata nelle zone costiere e
nelle grandi città. La presenza cattolica era limitata né più né meno alle zone
colonizzate e soprattutto era rivolta solo ai bianchi e ai meticci. Non ci si
poneva il problema dei popoli indios e caboclos. Pensi che addirittura c’era il
pregiudizio verso le persone di colore e molte congregazioni non accettavano
vocazioni di questo tipo. In tutto questo, la Chiesa aveva mantenuto strutture e
modi di agire proprie della tradizione europea, dall’uso della lingua alla
liturgia”.
Quando è cambiata la situazione?
“Tra gli anni ’50 e ’60, la Chiesa ha cominciato a diffondersi ovunque,
con una miriade di missioni e diocesi e un allargamento generale della propria
azione, aprendosi in particolare ai poveri. Ma è soprattutto con il Concilio
Vaticano II che arriva la cosiddetta inculturazione, ovvero l’adattamento del
linguaggio della Chiesa ai costumi e alla mentalità della cultura locale”.
Sono gli anni in cui comincia a prendere forma la Teologia della
Liberazione…
“Sì, lo spartiacque è la conferenza generale dell’episcopato del
continente, svoltasi nel 1968 a Medellin, in Colombia. In quell’occasione emerse
un movimento della Chiesa verso i poveri: una presa di coscienza per condividere
la sofferenza della gente. Cambiò tutto e vi furono eccessi e cose sbagliate, ma
credo che il movimento sia stato positivo”.
Insomma, è sbagliato generalizzare come spesso avviene?
“Bisogna chiarire che la Teologia della Liberazione nasce dalla
convinzione che i poveri possano essere liberati dall’annuncio di Cristo,
racchiuso nel messaggio delle beatitudini. Questo principio è stato poi
attualizzato in modi diversi. Per esempio, sono stati elementi positivi la
nascita delle piccole comunità di base, la riscoperta del ministero laicale, lo
spendersi per i poveri, così come considerare una priorità l’evangelizzazione
tra i sofferenti”.
Quali furono invece gli aspetti negativi?
“Accanto a queste realtà, vi furono distorsioni evidenti, a causa
dell’influsso negativo su alcuni del marxismo e leninismo e il collegamento con
i movimenti comunisti dell’epoca. Ricordo quando partecipai alla conferenza
generale dei vescovi latinoamericani del 1979 a Puebla, con Giovanni Paolo II: i
teologi della liberazione appoggiavano chiaramente regimi come quello di Cuba,
dell’Unione Sovietica, del Vietnam o della Cina. Un’assurdità, perché in nome
della liberazione dei poveri si arrivava a teorizzare un concetto rivoluzionario
e politico, senza escludere il ricorso alla forza. È chiaro che si trattasse di
una deformazione della dottrina, perché la liberazione non viene dalle armi, dal
partito o dall’ideologia ma solo da Cristo”.
Quanto pesano nella Chiesa latinoamericana di oggi questi aspetti della
Teologia della Liberazione? È vero come ha detto l’arcivescovo di San Paolo che
quell’esperienza è morta?
“Non credo che sia morta, anche se il fenomeno è difficilmente
quantificabile. Rimane piuttosto una mentalità di fondo. E attenzione,
non bisogna parlare di realtà comuniste. È in gioco piuttosto una tendenza a
giudicare la realtà sociale con criteri marxisti: quindi, la presenza e la lotta
tra le classi, la contrapposizione tra ricchi e poveri, una società condizionata
solo da fattori economici e via dicendo”.
Un approccio puramente materialistico…
“Beh sì. Le faccio un esempio: nel 1972 in Cile fu fondato il movimento
dei “Cristiani per il socialismo”. L’idea era che il Vangelo esprimesse sì dei
valori ma che sui problemi sociali, fosse utile solo il marxismo, l’unica
lettura politica che partiva dai poveri. Un approccio sbagliatissimo, perché noi
non siamo cristiani per il socialismo ma per Gesù Cristo. Quella mentalità
purtroppo, influenza ancora alcuni settori della Chiesa del continente”.
Il fenomeno dei nuovi gruppi pentecostali interroga a fondo la Chiesa
locale. Colpisce come queste sette, al di là di evidenti distorsioni, puntino
molto sugli aspetti carismatici ed esistenziali. Forse in passato, la Chiesa ha
ripiegato troppo sulla dimensione della denuncia sociale?
“Questi movimenti sono molto forti non solo in America Latina. Penso
che per certi aspetti siano una reazione allo spostamento a sinistra della
Chiesa del continente negli anni ’60 e ’70. In alcuni contesti, si metteva
troppo l’accento sulla liberazione economica e sociale dei poveri, trascurando
l’aspetto spirituale e anche l’entusiasmo di vivere la fede. Pensi che qualcuno
sosteneva che le chiese piene di santi e Madonne svilissero il popolo che, al
contrario doveva combattere e reagire. In sostanza, alcuni hanno ridimensionato
la devozione, l’esatto contrario di quello che fanno i movimenti carismatici,
naturalmente con tutte le esagerazioni del caso. Penso tuttavia, che anche
questa situazione aiuti la Chiesa a creare nuove piste di azione”.
È il tempo dell’autocritica?
“La Chiesa si mette sempre in discussione perché è sempre sulla via
della riforma. Il Vangelo è l’insegnamento di Cristo ma non lo si capisce mai
fino in fondo. Mano a mano che la storia va avanti, percepiamo cose che non
avevamo capito prima. Penso per esempio al discorso dei laici. Oggi nel bene e
nel male viviamo ancora in una cultura clericale, in cui il prete è tutto:
comanda, decide, agisce. I laici in realtà dovrebbero avere un ruolo più forte.
Il discorso è comunque complesso”.
Che giudizio dà della situazione attuale della Chiesa in America latina?
“C’è un grande risveglio religioso: le vocazioni sono in aumento e la
Chiesa comincia a sentirsi matura. Certo, ci sono ancora problemi di formazione
e molti vescovi chiedono preti dall’estero. Ma non bisogna dimenticare che in 50
anni sono stati fatti passi in avanti enormi. Noi del Pime, nel 1952 abbiamo
fondato due diocesi in Amazzonia: allora non esisteva nulla, oggi c’è una realtà
bellissima, con scuole e università, ma è difficile che in appena 50 anni un
popolo riesca a maturare religiosamente. Con questo, ricordo che la Chiesa
brasiliana è già nella situazione di mandare missionari all’estero: un segno
chiaro di maturità”.
Per quanto riguarda la realtà sociale, qual è invece l’impegno?
“Quando si parla di sviluppo, da sempre sostengo il binomio tra
educazione e Vangelo. Un missionario del Pime mi raccontava che prima di ogni
cosa, costruiva una scuola, perché, diceva ‘Senza la scuola la chiesa non serve’.
L’idea era cioè quella di non disgiungere mai lo sviluppo dal popolo, a
cominciare dalla sua educazione. Vede, oggi si parla molti di condonare il
debito e di inviare aiuti. Cose giustissime, ma senza piani di educazione, non
si arriva da nessuna parte”.
In concreto?
“Serve per prima cosa l’alfabetizzazione e l’istruzione e poi il
Vangelo che dona ai popoli credenti i valori alla base dello sviluppo:
l’uguaglianza, il rispetto, il dovere di impegnarsi. È una questione di
mentalità. Nel caso del Brasile, ci sono stati molti problemi in questo senso,
anche a causa di élite che in passato hanno avuto interesse a tenere le masse
nell’ignoranza”.
Cosa si aspetta dalla conferenza dei vescovi del continente ad Aparecida?
“Credo che si ribadirà l’importanza di ritornare a Gesù Cristo, ripartendo da
Lui. Perché per ogni progetto di formazione, evangelizzazione ed educazione è
necessario ricentrare la Chiesa sul suo fondamento. Su queste premesse si
ragionerà con fiducia sull’esigenza di formare in profondità i cristiani, senza
dimenticare l’impegno per la giustizia e i poveri. Una priorità entrata ormai
nella consapevolezza di tutti”.
Padre Gheddo su Korazym (2007)
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