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“Armagheddo”. Si chiama così il blog con il quale un’instancabile missionario giornalista è ancora presente, oggi, nel mondo dei media italiani. Stiamo parlando di p. Piero Gheddo, classe 1929, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), senz’altro uno dei primi in Italia a dare lustro al giornalismo missionario. A lui, direttore di Mondo e Missione per 35 anni, uno dei fondatori dell’Editrice Missionaria Italiana (EMI) nel 1955, nonché autore di numerose pubblicazioni, rivolgiamo alcune domande.
Quali sono gli obiettivi attuali dell’informazione missionaria in Italia? Come vede la stampa missionaria in Italia oggi? Quale il suo ruolo?
Gli obiettivi della stampa missionaria sono quelli di sempre. La stampa missionaria deve essere anzitutto missionaria, intendendo questo termine come lo intende la Chiesa, il Informazione missionaria: ecco cosa penso Concilio e i Papi fino ad oggi. Benedetto XVI nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2009 richiama il mandato missionario di Cristo di fare “discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). E aggiunge: scopo della missione della Chiesa è di illuminare con la luce del Vangelo tutti i popoli nel loro cammino storico verso Dio, perché in Lui abbiano la loro piena realizzazione ed il loro compimento. Questa la ”missione alle genti” a cui la stampa missionaria deve essere fedele, realizzando lo scopo di trasmettere ai lettori, come dice il Papa nel messaggio citato, “l’ansia e la passione di illuminare tutti i popoli, con la luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa, perché tutti si raccolgano nell’unica famiglia umana, sotto la paternità amorevole di Dio”. La stampa missionaria è in crisi un po’ perché, con l’avvento della televisione, si legge sempre meno. Ma il vero motivo è un altro: perché la stampa missionaria sta perdendo la sua identità. Vi sono due tipi di riviste: quelle che sono bollettini di istituti, che trasmettono ai lettori informazioni, riflessioni e resoconti sulla vita missionaria; e le altre riviste più generali, come Mondo e Missione che ho diretto per 35 anni, che in genere mi pare abbiano perso almeno in parte la loro identità. Nel 2002, un sacerdote scriveva a una di queste: “Perché la chiamate ancora ‘rivista missionaria’? L’impressione netta che si ricava dai vostri articoli è che la salvezza non viene da Gesù Cristo (quante volte è nominato?), né che l’annunzio del Vangelo è il primo compito dei missionari, ma che la salvezza è un problema sociale, politico ed economico. Volendo essere una rivista missionaria, date ai lettori la consapevolezza che il mondo cambia e il male è vinto, anzitutto e realmente, con la conversione dell’uomo al Vangelo. Non inculcate (certo senza intenzione) lo spirito di lotta tra ricchi e poveri, che innesca la spirale dell’odio, da cui vengono tutti i mali. Cristo ci libera dal peccato e chi ne è libero fa le opere della giustizia. Don Emilio Colombo, Buscate (Mi)”. Il programma della stampa missionaria è ridare lo “stupore dell’annuncio del Vangelo”, che riscalda il cuore dei lettori e suscita la gioia e l’entusiasmo della fede. La stampa missionaria deve trasmettere ai lettori la coscienza che la fede è il più grande dono che Dio ci ha fatto e dobbiamo testimoniarlo e comunicarlo agli altri; deve far riscoprire Cristo come unico Salvatore dell’uomo, suscitare l’amore a Cristo e la passione di portarlo a tutti i popoli. Se non comunica questi sentimenti e si dedica ad altri compiti, può realizzare buone azioni sociali, culturali, politiche, sindacali, ma non è più “stampa missionaria”. O no?
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In un momento storico in cui l’idea di ‘missione’ non è più esclusiva, diciamo così, degli Istituti missionari, ma è abbastanza diffusa anche nelle Chiese locali, ha ancora senso un mensile missionario?
E‘ vero, grazie a Dio e all’enciclica “Fidei Donum” di Pio XII (1957) e poi al Concilio Vaticano II, tutte le Chiese locali sono coinvolte nell’esercizio della “missione alle genti”. Ma questo non rende inutili gli Istituti e le riviste missionarie; così come il dovere di tutti i cristiani di essere oranti e contemplativi non rende inutili i conventi e le monache di clausura! Ma ripeto, Istituti e riviste, se conservano il loro carisma originario, sono ancora e sempre indispensabili alla Chiesa universale. Perché, come scriveva Giovanni Paolo II nell’enciclica “Redemptoris Missio” (1990): “La missione alle genti è appena agli inizi” (nn. 3, 30, 35, 40). Naturalmente la “missio ad gentes”, come dice la stessa enciclica (capitolo IV), è profondamente cambiata e la stampa missionaria deve rendere conto di queste novità: inculturazione del messaggio e della Chiesa in nuovi mondo culturali e religiosi, dialogo inter-religioso, promozione umana, difesa e promozione dei diritti dell’uomo, missione cittadina, traduzione della Parola di Dio nelle diverse lingue dei popoli, miglior formazione del clero e dei catechisti, ecc. Non si tratta più solo di annunziare Cristo e fondare la Chiesa dove ancora non esiste (scopo primario), ma di aiutare le giovani Chiese ad essere esse stesse missionarie nel loro ambiente e in tutti i settori della società.
I lettori cosa gradiscono maggiormente, secondo lei, in una rivista missionaria?
Secondo me: le testimonianze dirette dei missionari e delle giovani Chiese, perché sono la vera originalità di questa stampa. Spesso le riviste missionarie parlano più dei “problemi” che della “vita”, anche perché più facile. Quand’ero direttore della rivista del Pime (1959-1994), pubblicavo due-tre volte l’anno dei “servizi speciali” (inserti di 24-28 pagine) intervistando nei miei viaggi o anche in Italia i protagonisti della missione alle genti. Non sempre padri dell’Istituto, ma anche di altri Istituti o laici missionari. Interviste che costavano fatica: trovare il personaggio adatto e disponibile, farlo parlare a lungo anche a distanza di tempo, trascrivere dal registratore, scrivere il servizio e farglielo approvare, fare o cercare le foto. Però quei servizi speciali avevano i maggior gradimenti dei lettori. Se ad un missionario con trent’anni di missione si dedicano due-tre pagine, egli dice quasi solo cose risapute; ma in 24-28 pagine c’è la possibilità di esplorare a fondo anche le ricchezze religiose e culturali che può trasmettere al lettore italiano. A volte qualcuno mi diceva: “Tu fai di un missionario un personaggio e trascuri tutti gli altri. Non è giusto”. Il giornalismo è questo, creare figure esemplari, significative, che trasmettano i messaggi ed i valori di tutti. Stampa e televisione esaltano gli “eroi negativi” che diventano modelli, perché noi missionari, che abbiamo tanti “eroi positivi”, non li dobbiamo esaltare e proporre ai giovani d‘oggi?
Nel 1958 lei dava alle stampe il volume “Giornalismo missionario”. Cinquant’anni dopo cosa le sembra ancora valido di quel testo? Cosa andrebbe aggiunto alla luce di questi ultimi decenni?
E’ uno dei miei primi libri, che ha avuto un buon successo e anche una traduzione in tedesco. Avevo fatto un’ampia indagine sulla stampa missionaria del tempo rispetto a quella del passato e davo anche orientamenti per il futuro. La novità di quel libro fu questa: allora, le riviste missionarie non erano considerate “giornalismo”, ma semplici strumenti di “propaganda missionaria”. Ho avuto la fortuna di frequentare, dopo l’ordinazione sacerdotale (1953), la scuola di giornalismo dell’”Università Pro Deo” fondata nel 1946 a Roma dal padre domenicano canadese Félix Morlion (oggi si chiama Luiss, Libera Università Internazionale degli Studi Sociali). Avevo la passione del giornalismo e già mi esercitavo a scrivere articoli in liceo e teologia. Invece di partire per l’India com’era previsto, i superiori mi fermarono (“per un anno o due”!) in Italia per aiutare nella stampa dell’Istituto. La Pro Deo mi aprì orizzonti nuovi e incominciai quasi subito a collaborare con giornali cattolici e laici: L’Italia (oggi Avvenire), L’Osservatore Romano, Gente, Il Giorno. Con il volume “Giornalismo missionario” volevo dare un contributo allo svecchiamento delle riviste missionarie, ponendole su un piano di povero ma originale giornalismo. Come infatti ho fatto con “Le Missioni Cattoliche” del Pime, che nel 1959 aveva circa 1.800 abbonati e nel 1968, vent’anni dopo, raggiunse le 45.000 copie diventando (come “Mondo e Missione”), rivista della Pontificia Unione Missionaria del Clero, che abolì “Clero e Missioni” e portò in dote più di metà degli abbonati. Quel che non avevo previsto, e non era nelle mie intenzioni, è che diverse riviste missionarie, passando dalla “propaganda missionaria” al giornalismo, finissero a poco a poco per perdere la loro identità, orientandosi verso la politicizzazione e il “terzomondismo”, accodandosi alla corrente pseudo-rivoluzionaria del Sessantotto. Dico “pseudo”, perché l’unica e vera rivoluzione nella storia dell’umanità l’ha portata Gesù Cristo e se la stampa missionaria perde di vista questo, diventa sterile nei suoi scopi fondamentali che sono di suscitare amore e passione per Cristo, preghiere, aiuti e vocazioni per la missione universale della Chiesa. Nel luglio 2001 a Genova i “No Global” sventolavano cartelloni con la scritta: “Vogliamo un mondo nuovo”. Ingenui e illusi. Tutti lo vogliamo, ma senza Cristo non si costruisce nulla di nuovo e di positivo per l’uomo. Ecco l’originalità della stampa missionaria. Se dovessi scrivere oggi “Giornalismo missionario” cosa direi? Io ho fatto la mia parte cinquant’anni fa, oggi mi auguro che nasca un giovane missionario, con la passione per la missione alle genti e il carisma giornalistico, che faccia una nuova e approfondita indagine sulla stampa missionaria e sugli istituti missionari; e dia nuovi orientamenti adatti ai tempi e agli strumenti oggi disponibili. Con la ferma convinzione che Gesù Cristo è l’unica ricchezza che noi missionari abbiamo da dare agli uomini, obbedendo alla Chiesa, che ci mantiene nell’autentica via tracciata da Gesù e dal suo Vangelo.
Piero Gheddo (“note di stampa” di Pasquale Castrilli)
agosto 2010
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