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Nel gennaio 2009 sono stato in Bangladesh dove c’è una Chiesa autenticamente missionaria: su 150 milioni di bangladeshi (i cittadini del Bangladesh) i cattolici sono 300.000, cioè lo 0,3% e i cristiani, tutti assieme, circa un milione, meno dell’1%.
Ho già parlato diverse volte della missione in Bangladesh e questa sera voglio raccontarvi di come si svolge la missione nelle zone rurali, dopo di aver parlato della missione nelle grandi città (giugno 2009). Perché questa insistenza? Per rendere concreto il mio messaggio missionario e anche perché spesso si dice: “Ormai anche l’Italia è paese di missione”. E’ una bugia colossale. La differenza fra un paese cristiano come l’Italia, anche se oggi in crisi di fede, e un paese non cristiano come il Bangladesh è abissale.
Non si può dire che è la stessa missione. Il popolo italiano, dopo duemila anni di cristianesimo, ha una base culturale e religiosa cristiana e può tornare alla fede; un popolo non evangelizzato, nel quale il messaggio di Cristo non é mai stato predicato, ha una base culturale e religiosa che non gli permette di capire facilmente il Vangelo. Ad esempio, non capisce il dovere di perdonare chi ci offende, non capisce l’uguaglianza fondamentale tra uomo e uomo, tra uomo e donna, non capisce il senso del gratuito, del volontariato.
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In altre parole, in Italia dobbiamo rievangelizzare il popolo italiano, in Bangladesh è la prima volta che il Vangelo viene predicato e sentito. C’è una bella differenza!
La mia catechesi si svolge in tre punti:
1) Padre Luigi Scuccato, parroco a 89 anni di Beneedwar.
2) Come funziona una parrocchia rurale: Pathorgata.
3) Padre Angelo
Canton: i miei 56 anni di Bengala.
I) Parte Prima – Luigi Scuccato parroco di Beneedwar a 89 anni
Questa sera vi parlo della missione alle genti nelle campagne del Bangladesh, come la esercitano i missionari del Pime che sono in Bengala dal 1855, cioè da 154 anni e vi hanno fondato 6 diocesi, tre delle quali, dopo la divisione fra India e Pakistan nel 1947, sono rimaste in India (Krishnagar, Jalpaigury e Dumka-Malda) e tre sono oggi in Bangladesh: Dinajpur, Jessore e Rajshahi. Dal 1951 nella diocesi di Jessore ci sono i missionari saveriani italiani di Parma, naturalmente con vescovo bengalese, come tutte le sei diocesi del Bangladesh.
La popolazione del Bangladesh è in gran parte costituita da musulmani con una forte minoranza indù (circa il 10%) e una piccola minoranza di appartenenti alle tribù locali aborigene di religione animista. Un termine generico che indica la credenza negli spiriti buoni e cattivi, che influiscono sulla vita dell’uomo.
La missione in Bengala si svolgeva e ancora si svolge fra i primitivi abitatori della regione, appartenenti a tribù aborigene (santal, oraon, pahari, garo), di religione tradizionale, animisti e aperti ad accogliere il messaggio evangelico, mentre le popolazioni maggioritarie, indù e musulmane, in passato ostili ai predicatori del Vangelo, oggi vedono anche con favore la missione cristiana in senso sociale (opere educative, sanitarie, di assistenza ai più poveri), ma sono ancora chiuse al Vangelo. Fin dall’inizio della missione in Bengala a metà dell’Ottocento, i primi missionari del Pime si sono impegnati, oltre che fra indù e musulmani, ad inseguire i tribali nelle loro foreste e nei luoghi più remoti. Infatti ancor oggi, le missioni sono spesso tagliate fuori dal treno e dalle vie di comunicazione più importanti.
I missionari hanno spesso abitato per più d’un secolo in capanne di fango e paglia. In questo ambiente è nata la Chiesa nel Bengala indiano e in Bangladesh, che oggi è formata da una minoranza di battezzati bengalesi, discendenti dalle prime comunità di cristiani fondate dai portoghesi nel 1500 e 1600 lungo le coste del Bengala. I cattolici bengalesi sono ancora quelli che danno la maggioranza delle vocazioni sacerdotali e religiose. Sono cristiani di antica fede, però la maggioranza dei battezzati sono tribali, che attraverso le opere sociali ed educative delle missioni si sono evoluti e sono sempre più accolti dalla popolazione bengalese. In passato (e ancora in parte oggi), in bengalesi disprezzavano e discriminavano i tribali, chiamandoli “selvaggi”. Un esponente della comunità islamica diceva ad un nostro missionario: “Convertite pure i tribali alla Chiesa, non sono adatti ad entrare nell’islam, è meglio diventino cristiani. Quando si saranno evoluti, entreranno anche loro nell’islam che è la religione finale dell’umanità”.
Il missionario del Pime padre Luigi Scuccato, nato il 2 giugno 1920, nel 2009 ha compiuto 89 anni. Credo che, nella Chiesa cattolica universale, sia l’unico prete di quella venerabile età che è ancora parroco! Sta bene di salute, ma mi dice di aver rinunziato due volte alla sua parrocchia di Beneedwar. Il vescovo locale gli ha detto: “Vai avanti lì fin che stai bene. Quando sarà il momento di ritirarti, te lo dirò io”. Scuccato obbedisce, nonostante l’età, gli acciacchi e la stanchezza. Gli chiedo se gli piace essere ancora parroco. Risponde di sì, raccontando i suoi 60 e più anni di missione in Bengala.
E’ arrivato in Bengala nel 1948, 61 anni fa. Allora nella diocesi di Dinajpur non esisteva la luce elettrica. L’elettricità è arrivata nel 1959 nella città di Dinajpur e solo per alcune ore al giorno. Padre Scuccato ha vissuto per anni in capanne di fango e paglia, ha viaggiato per visitare i villaggi a piedi, in bicicletta e dov’era possibile in moto. Oggi le missioni, in genere, hanno un loro generatore per l’ospedaletto o il dispensario medico e la missione, ma l’elettricità statale non è ancora arrivata in tutti i villaggi dove abitano i missionari.
Padre Luigi racconta le sue avventure e dice: “Nella mia vita in Bengala ho corso vari pericoli, girando nei villaggi dove non c’erano strade, né mezzi di trasporto, né ponti. Pericoli di serpenti, di leopardi, di ladri, pericoli di fiumi quando, bicicletta in spalla, attraversavo il fiume su una malferma passerella di bambù o a piedi quando c’era la stagione secca e in certi posti si poteva attraversare con l’acqua alla cintola.
La memoria di padre Scuccato è invidiabile, non finirebbe più di raccontare! Il Bangladesh è tormentato delle frequenti inondazioni. Tutti gli anni, fra giugno e ottobre, alcune regioni del paese vanno sott’acqua: per circa 3-4 mesi soffiano i venti caldi del sud-est, chiamati “monsoni”, che portano con sè piogge torrenziali. Un vero diluvio che si rivela poi provvidenziale per l’agricoltura, ma che a volte causa inondazioni, straripamenti di fiumi, intere regioni che rimangono sommerse per giorni e giorni. Padre Luigi ricorda: “Nel settembre di parecchi anni fa, tornando dalla città Rajshahi alla mia missione di Beneedwar, mi sono trovato a dover restare due giorni sulla strada inondata e interrotta, costretto a proseguire su zattere di tronchi di banane o in barca o a camminare nell’acqua fino alla cintola, circondato dalla macabra visione di case crollate, villaggi distrutti. La strada era sommersa dall’acqua, un fiume immenso, una palude da cui emergevano solo le case, gli alberi e i pali della luce, per chilometri e chilometri”.
“Ho visto – continua padre Scuccato – scene pietose di gente che accompagnava donne e vecchi, con l’acqua alla gola. Una giovane donna piangeva disperata con un bambino piccolo in braccio, trascinando il fratellino più grandicello di 5 anni che stentava a tenere la testa fuori dell’acqua L’ho preso io in braccio, fin che abbiamo incontrato alcuni parenti venuti con una barca in loro soccorso. Sono arrivato a casa – continua p. Scuccato – mentre l’acqua stava già scendendo. La mia casetta in muratura, pur invasa dall’inondazione, aveva resistito. Io però ho preso una febbricciattola che mi ha costretto a letto alcuni giorni. Ma peggio di me stava la gente rimasta senza un tetto, senza cibo e senza lavoro. Proprio questa gente, nonostante tutto, mi ha dato un grande esempio di sopportazione, di forza e di capacità di riprendere a vivere con speranza. I poveri hanno spesso molto da insegnarci”.
Oggi Scuccato, è ancora parroco a 89 anni! Il vescovo gli ha mandato un viceparroco bengalese. “E’ giovane e va tenuto un po’ a freno – dice – ma sono contento di lui”. Beneedwar è uno dei primi villaggi evangelizzati dai missionari del Pime fin dall’inizio del Novecento. La parrocchia è ormai molto ben inserita nel contesto umano e ambientale. Nella bella chiesa c’è la tomba di padre Francesco Rocca, il primo missionario che, venendo da Krishnagar, ha attraversato il Gange nel 1902 per iniziare l’evangelizzazione delle regioni dei santal e di altri adibasis.
Nella visita che ho fatto a Beneedwar nel 2001, ricordo che un catechista mi parlava con un certo orgoglio di padre Rocca e di come la Chiesa nel Bengala centrale è nata proprio nel loro villaggio e loro sono la prima comunità cristiana di questa parte del Bengala. L’identità del villaggio viene da questo ricordo storico, l’unico che hanno della loro storia, ed è una identità cristiana.
Lo dico a padre Scuccato e lui risponde: “Uno dei temi che tratto nelle mie prediche e catechesi è proprio questo, che qui a Beneedwar un secolo fa è giunto il primo missionario e portare la fede e noi ne siamo i discendenti. Questo mi permette di ricordare gli esempi di padre Rocca e di tutti i grandi missionari che sono i nostri padri nella fede. Ho sperimentato che queste giovani cristianità debbano spesso essere richiamate alla loro storia e alla grazia di Dio che hanno ricevuto, perché in un ambiente come questo, dove si dimentica quello che è successo 20-30 anni fa, questo senso storico della comunità cristiana li rende orgogliosi e li rafforza nella fede e nell’appartenenza alla Chiesa.
La parrocchia di Beneedwar è caratteristica di quelle fondate dal Pime in Bengala, proiettata verso i non cristiani.
I battezzati della parrocchia sono 4.000, dispersi in 40 villaggi, i catecumeni alcune centinaia, formati dai catechisti. Le cappelle sono poco più di trenta perché a volte il villaggio non è tutto cristiano ma ci sono solo alcune famiglie cristiane. Sei sono in muratura, le altre di fango e paglia. Certo che la cappella in muratura attira molto, ma le facciamo quando troviamo i soldi.
Fino a qualche anno padre Scuccato visitava ancora in bicicletta i villaggi cristiai e non cristiani. “Adesso – mi dice – mi portano ma riesco ancora a muovermi e anche a vivere in un villaggio”. Un fatto veramente straordinario: un missionario di 89 anni che visita ancora i villaggi e ci vive per alcuni giorni, mangiando il povero cibo che i cristiani gli danno e soprattutto dormendo nelle loro capanne o nella cappella di fango e paglia! Se i nostri giornali, pieni di notizie negative che creano pessimismo, fossero sensibili alle buone notizie, ecco un missionario da visitare, intervistare e fotografare, come esempio di come vivono e di cosa fanno i 13.000 missionari italiani nel mondo!
Padre Luigi mi dice: “Sono fortunato perché ho quattro suore di Shanti Rani (una congregazione locale fondata dal vescovo valdostano mons. Giuseppe Obert), una è bengalese e le altre adibasi e vanno d’accordo. Lavorano bene nel dispensario medico e nei due pensionati (maschile e femminile), con studenti che vengono dai villaggi e studiano nelle scuole che abbiamo a Beneedwar. Poi ho costruito il centro pastorale che serve a tutto: catechismo, riunioni, preparazione al matrimonio, ufficio parrocchiale, credit union, associazioni, ecc. Le suore sono indispensabili come i preti, anzi, nella missione fra i non cristiani e in particolare fra i musulmani come in Bangladesh, ancora di più.
Padre Scuccato mi dice che ci tiene molto a formare i suoi fedeli allo spirito missionario, riferendosi spesso ai padri e suore che hanno portato la fede in questa regione. I villaggi che vengono a chiedere l’istruzione religiosa sono ancora parecchi, ma non si può rispondere a tutti. Padre Luigi oggi si dedica soprattutto alla formazione dei tre catechisti stipendiati e a tempo pieno e dei “prayer leaders” di ogni villaggio, che una volta al mese passano una giornata in missione per l’istruzione religiosa. I catechisti stipendiati invece vanno a visitare i villaggi sia cristiani che pagani. Chiedo a padre Luigi da dove viene la decisione di un villaggio di chiedere l’istruzione religiosa per convertirsi a Cristo. Risponde:
“Il primo fattore di attrazione è l’esempio dei cristiani e della missione; poi il lavoro delle suore di Shanti Raniche visitano i villaggi anche non cristiani e soprattutto la suora infermiera che cura il dispensario a Beneedwar e a volte va anche nei villaggi a dare medicine e curare gli ammalati.
La cura amorosa dei malati credo che sia la prima presentazione del cristianesimo che tutti accettano e che convince, perché noi facciamo tutto gratuitamente e questo porta la gente ad interrogarsi sul perché lo facciamo. E poi il pensionato (boarding) che abbiamo in missione attira molti ragazzi e ragazze e le loro famiglie. Vengono anche bambini non cristiani e allora io prendo i genitori e dico loro: “Voi mandate i vostri figli alla missione cristiana e non siete cristiani. Allora, i vostri figli sentono qui una cosa e un’altra a casa loro. Finirà che il bambino non crederà più né a voi né a noi. Dovete anche voi conoscere cosa insegna il cristianesimo”. E parecchi accettano.
Visitando la missione e alcuni villaggi cristiani, ammiro la semplicità della vita ma vedo la povertà a volte commovente di molti. So che nelle missioni il problema economico assume a volte aspetti angosciosi per il missionario. Chiedo a Scuccato: una parrocchia come la tua è autonoma in campo economico?
Assolutamente no, se non avessi parenti e benefattori che mi aiutano dovrei dichiarare fallimento di tutte le opere di Vangelo e di carità che facciamo.Noi insistiamo perché i fedeli diano il loro contributo e lo danno, ma sono poveri e la maggioranza molto poveri e danno quel poco che possono. Anno per anno cerchiamo di alzare il prezzo del pensionato per i ragazzi, ma quelli che hanno famiglie veramente povere non pagano nulla. Poi abbiamo dei campi che qualcosa rendono, si paga i contadini che li coltivano, ma rendono. Dal vescovo abbiamo il suo contributo, ma non basta per mantenere la missione. Io ho un certo numero di parenti, amici e benefattori con i quali mantengo le relazioni e mi aiutano.
“In questi tempi insisto per costruire le cappelle in muratura perché il villaggio senza cappella stabile non è ancora stabilmente cristiano. Ma le cappelle costano, rispetto alla povertà dei nostri fedeli, non potrebbero mai, ora come ora, costruirsi una cappella in muratura. Una cappella in muratura, con una stanzetta per il padre o per le suore quando visitano il villaggio, costa circa 6-7.000 Euro. Un’altra urgenza sono i due pensionati che ospitano cento ragazzi e 110 ragazze, che bisogna risistemare perché cadenti. Preghiamo perché la Provvidenza ci venga in aiuto”.
II) Parte seconda – Come funziona una parrocchia rurale: Pathorgata
Più visito le missioni e più mi innamoro della vocazione missionaria. Ho trovato tanti missionari che hanno speso una vita totalmente dedicati al loro popolo, anche quando questo non rispondeva alle loro cure.
Uno di questi è stato padre Giovanni Battista Vanzetti, scomparso da poco (1925-2007) che ricordo di aver visitato nel 2001. Mi parlava della sua missione e diceva che la sua era brava gente, con buoni sentimenti; mentre sentivo dire dai suoi confratelli che Vanzetti, a partire dal 1962, aveva fondato da solo la parrocchia di Pathorgata in 17 anni di durissimo e penoso lavoro, dato l’ambiente ostile nel quale s’era trovato a lavorare, con momenti di vera persecuzione. Ma lui parlava bene dei suoi cristiani, almeno con me che, come giornalista, avrei potuto scrivere cose negative su Pathorgata. A volte si sfogava e si lamentava con i confratelli, ma col missionario giornalista non poteva dare un’idea negativa della sua gente!
Vanzetti era uno dei tanti missionari che scrivono e parlano poco delle loro fatiche e avventure, ma lavorano molto. Il suo ricordo rimane scolpito nel cuore di molti che l‘hanno conosciuto e sul marmo di una lapide affissa sul muro esterno della casa parrocchiale di Pathorgata.
Oggi la parrocchia è affidata a padre Emanuele Meli (in Bangladesh dal 1972). Lo visito un venerdì, giorno di festa per i musulmani come da noi la domenica. Due matrimoni nella Messa solenne del mattino, con chiesa strapiena di santal e oraon, liturgie, canti, discorsi e cerimonie varie per poco meno di due ore. Poi quella massa di fedeli si divide nelle due etnie e nei cortili della missione festeggiano a modo loro i due matrimoni. Spettacolo che commuove. Cortei, danze, musiche e canti, doni agli sposi, i variopinti costumi, le bancarelle che vendono dolciumi, biscotti, involtini di carne. Soprattutto la felicità che brilla nei volti di tutti ed esplode in una gioia incontenibile.
Senza bisogno di spiegazioni capisco perchè i tribali, in una società come quella bengalese che da sempre li marginalizza e sfrutta, si avvicinano alla Chiesa cattolica ed a quelle protestanti. La fede e la comunità cristiana danno loro una nuova identità, una unità che non avevano, una educazione e una forza di rappresentanza che non potevano nemmeno sognare rimanendo nelle loro credenze tradizionali, quando venivano additati come “adibasis”. aborigeni, primitivi, selvaggi. Oggi il cristianesimo, rispettato e ammirato dai musulmani, dà a loro un Libro, una Legge, una Comunità che li mettono alla pari con i bengalesi. Capisco anche perchè la fede, che non è una cultura, crea però una cultura come modo di pensare e di vivere che caratterizza il popolo credente.
Padre Emanuele Meli così mi ha presentato la sua parrocchia nella visita che gli ho fatto a Pathorgata pochi mesi fa, il 24 gennaio 2009:
“Abbiamo circa 2.000 battezzati e dai 300 ai 500 catecumeni e ogni anno un centinaio di battesimi di pagani. Io vado molto adagio a battezzare, dai tre ai cinque anni di catecumenato, perché devo convincermi che sono maturi per il battesimo.
Se ci fosse più personale e più mezzi, potremmo avere più conversioni, ma il nostro problema oggi è di istruire bene questi cristiani. Abbiamo visto che i cristiani fatti in fretta non resistono. Il catecumenato è lungo anche perché i giovani cristiani accolgono la fede con entusiasmo. La loro religione tribale non li sostiene più, sentono un vuoto dentro e questo vuoto il cristianesimo lo riempie; e poi vedono la differenza fra paganesimo e cristianesimo e sono contenti di essere cristiani. Non si convertono all’islam, perché l’islam è troppo oppressivo della persona. I tribali sono persone libere, l’islam è soffocante, il cristianesimo lascia libera la persona. Non sono abituati a una vita disciplinata, quando portiamo ragazzi nell’ostello, le prime volte scappano e bisogna riportarli indietro. Nell’ostello di Pathorgata quest’anno ho aumentato i ragazzi da 100 a 150 perchè vedo che l’ostello è veramente formativo. All’inizio noi giovani missionari eravamo contrari all’ostello, poi abbiamo visto che è indispensabile e formativo”.
Anche a Pathorgata, come nelle altre parrocchie del Bangladesh, il problema più sentito sono i catechisti e la formazione profonda dei cristiani.
Oggi il lavoro principale di padre Meli è di formare i catechisti, indispensabili per avere buoni cristiani. In Italia noi a volte diciamo che come sono i preti o il prete della parrocchia, tali sono i cristiani. In missione si dice questo dei catechisti che praticamente sono quelli che rappresentano per i non cristiani e i giovani cristiani la figura del cristiano e hanno l’autorità di guidare le comunità parrocchiali sparse nei molti villaggi.
Padre Meli mi spiega che i catechisti sono buoni laici cristiani, che volontariamente e quasi sempre gratuitamente si impegnano in questo lavoro. Questo dà l’idea di come la fede, specialmente nei primi tempi della missione, suscita entusiasmo e dedizione, come leggiamo negli Atti degli Apostoli.
“Abbiamo due categorie di catechisti – mi dice. – I prayer leaders (capi della preghiera) che guidano la preghiera, venti villaggi venti prayer leaders. Poi ci sono due catechisti a tempo pieno e due suore che visitano i villaggi per la catechesi alle donne e ai bambini. Il catechista più anziano è quello particolarmente dedicato ai non cristiani, visita i villaggi e le famiglie pagane che manifestano interesse per il cristianesimo. Un altro mezzo per avere cristiani è di aiutarli a risolvere i problemi di terre. Sono diventato amico di un avvocato bihari e con lui aiutiamo i santal nei loro problemi di terre. Un altro mezzo è di stargli vicino e aiutarli a risparmiare, a produrre qualcosa in modo che siano autosufficienti come famiglia, in questo aiutati dalla Caritas e dalle Credit Union (banche di credito, vedi più avanti).
“Dopo la guerra d’indipendenza (1971), noi giovani missionari eravamo restii a battezzare, ma ci siamo convinti che vogliono proprio il battesimo e ho sperimentato che introducendo giovani famiglie nella vecchia comunità cristiana, questa riceve nuove forze nella fede e un entusiasmo che li impegna a diffondere la fede. Un mezzo importante di evangelizzazione è la cura dei malati e l’ospedale cattolico. Molti vedendo la nostra carità, l’ambiente familiare e le cure dell’ospedale di Dinajpur, rimangono impressionati e vengono per ricevere l’istruzione cristiana”.
La missione cattolica fra i tribali cura molto l’inculturazione della fede e della vita cristiana, soprattutto spiegando il cristianesimo nella loro lingua locale. Meli conosce bene il santal, l’ha studiato, e si lamenta che dopo la sua generazione di missionari, quelli venuti dopo hanno cominciato a dire che con il bengalese si va avanti lo stesso e non lo studiano più. Pochi lo imparano.
“Da sempre la tradizione del Pime – dice Meli – era di imparare le lingue locali anzitutto per far capire bene la fede. C’è un abisso linguistico e culturale fra il santal e il bengalese.Il bengalese lo studiano i più giovani, gli adulti lo usano nei mercati, negli uffici governativi, ma fra di loro usano il santal o l’oraon. Se parli bengalese capiscono la metà o anche meno di quel che dici. Nei tempi recenti padre Carlo Calanchi, che conosce il santal quasi come l’italiano, ha fatto un lavoro meraviglioso preparando la liturgia e la Scrittura in santal, testi ancora usati specie dai catechisti. E’ vero che il lavoro di inculturazione lo faranno i preti locali, ma andare nei villaggi per educarli alla fede dobbiamo farlo noi, parlando la lingua locale, visitando le famiglie, conoscendo la mentalità e l’ambiente in cui vivono.
“I protestanti hanno un approccio diverso dal nostro ai tribali, li fanno diventare subito cristiani. Non hanno attenzione alla cultura, mentre noi stiamo attenti, cerchiamo di tenerli nella loro società, di conservare i loro valori.I protestanti usano sempre il bengalese, non il santal o l’oraon. Hanno grandi ostelli che noi non abbiamo, ne hanno più di noi e formano più in fretta di noi dei professionisti e dei pastori, ma negli ostelli i ragazzi sono tutti uguali, trattati allo stesso modo. Perdono la loro identità di santal, oraon o altro. I protestanti e i battisti fanno un bel lavoro, però poi curano molto meno di noi i loro battezzati, infatti non pochi si perdono o vengono nella comunità cattolica”.
Chiedo a padre Emanuele se attraverso le scuole della missione e li ostelli sono riusciti a formare giovani diplomati e laureati. Risponde:
“Sì, abbiamo dottori, avvocati e altre professioni. Non invece imprenditori, perché manca la mentalità imprenditoriale e commerciale.Il tribale pensa all’oggi, non al domani, non programma, non prevede, non organizza, vive alla giornata. E poi ha sempre un complesso di inferiorità verso il bengalese, mentre l’industria è il commercio sono competitivi. Io dico spesso ai santal che la mentalità di vivere alla giornata non è più possibile. Se hanno un negozietto che vende il tè, viene un bengalese un po’ arrogante che dice: ti pago domani. Il santal non osa replicare, se non lo paga, lui non protesta. Se poi viene un parente a prendere il tè, si aspetta che glie lo dia gratis e lui stesso, il negoziante, dice: “Come faccio a farglielo pagare se è mio parente?”.
“Sono stato in India – dice ancora padre Emanuele – a visitare la missione dei gesuiti fra i santal. Anche loro dicono che creare una mentalità imprenditoriale e commerciale fra i tribali è cosa difficile e quasi impossibile. Adesso incominciano a cambiare cultura, ma ci vorrà tempo. Fra i tribali non esistono ricchi e poveri, tutti più o meno debbono essere sullo stesso piano. Sono ricchi (per modo di dire) quelli che sono riusciti a non farsi portare via i terreni o non hanno venduto i loro terreni”.
Pathorgata è un grosso villaggio multireligioso e multiculturale. La vicinanza dei musulmani e degli indù non provoca lotte o contrasti. A livello di villaggio, l’islam popolare è tollerante, non c’è fanatismo. Poco lontano dalla chiesa parrocchiale c’è un santuario islamico e un tempio indù, ambedue frequentati come anche la chiesa cattolica, ma si vive in buona armonia.
“Musulmani e indù – dice padre Meli – andando nei loro luoghi di culto vengono anche a vedere la chiesa cattolica.Spiego loro cosa facciamo, fanno domande ma senza aggressività. Oggi anche fanno loro opere sociali come noi, la missione ha insegnato molto. Abbiamo alcuni cattolici che si convertono all’islam, specialmente alcune infermiere andate a Dacca che sposano un musulmano, ma poche. A Pathorgata però cristiani e musulmani vivono separati, perché le loro vite sono diverse, il matrimonio è diverso, ecc. Nelle città ormai cambia tutto, ma nei villaggi si vive separati.
I missionari del Pime sono in Bengala dal 1855 e vi hanno fondato la Chiesa. Ma ancor oggi sono necessari, come mi ha detto il vescovo locale mons. Moses Costa. Chiedo a padre Meli qual è secondo lui il problema fondamentale di oggi della diocesi di Dinajpur e in genere in tutto il Bangladesh e come i missionari possono dare il loro contributo alla crescita di questa giovane Chiesa.
Risponde: “Credo che sia il passaggio dai missionari al clero locale. E’ una fase delicata e importante. Noi missionari dobbiamo incoraggiare e sostenere i preti locali e stimolarli e aiutarli. A Dinajpur abbiamo dieci preti santal e alcuni hanno studiato a Roma, uno sul matrimonio santal ha fatto una bella tesi. Gli altri preti diocesani sono bengalesi o oraon, adesso c’è anche un prete khotryo. I preti santal sono buoni ma non hanno iniziative, bisogna stimolarli, orientarli, aiutarli. Si sta già parlando di un vescovo santal, ce n’è già uno in India a Dumka.
I preti bengalesi, nell’ambiente santal, sono stranieri più di noi, che abbiamo uno spirito missionario. Noi dobbiamo aiutarli e sostenerli, ma anche lasciare che seguano un po’ la loro linea e metodo, che non sono i nostri. Ci sono certe cose che per i preti locali sarebbero difficili e noi ci impegnamo in queste.
III) Terza parte – Padre Angelo Canton – “I miei 56 anni in Bengala”
La missione del Bengala detiene, nel Pime (con quella della Birmania), il primato di avere un gran numero di missionari morti giovani e giovanissimi. Questo era vero nei primi cento anni di presenza dell’Istituto in Bengala (1855-1955). Poi la società bengalese è migliorata in tutti i sensi e anche i missionari hanno cominciato ad avere una vita più lunga. Ma non è facile trovare chi rimane e lavora in Bengala cinquanta e più anni.
Padre Angelo Canton è uno di questi. Nel gennaio 2009 ha celebrato i suoi 56 anni di Bengala (e 84 anni di età, è del 1925). Ma alcuni mesi dopo ha dovuto tornare in Italia per gravi motivi di salute. Vorrebbe ancora tornare in Bengala, ma non sa se i medici e i superiori dell’Istituto glie lo permetteranno.
Quando nel 2001 Canton ha celebrato i 50 anni di Bengala stavo visitando il Bangladesh e ho potuto fargli una lunga intervista, che mi pare interessante perché è la tipica storia di un missionario che ha sempre lavorato in parrocchia e si è innamorato del Bengala a contatto con la gente più semplice.
Racconta che è giunto in Bengala nel 1953 con tre giovani Missionarie dell’Immacolata e padre Luigi Bigoni che ritornava in missione e guidava la spedizione. In nave fino a Bombay e poi in treno a Calcutta e Dinajpur. Quest’ultimo un viaggio interminabile e penoso perché il treno viaggia adagio per giorni e notti interi:
“Bisognava comperare da mangiare alle stazioni, altrimenti si digiunava.Il padre Bigoni che teneva tutti i soldi, avaro in modo esagerato (ma allora la missione era veramente povera!), non voleva fare nessun spesa e noi quasi morivamo di fame e di sete… Ho accumulato tanta rabbia, che quasi volevo tornare in Italia. Poi ho capito che dovevo adattarmi io alla vita dei missionari sul posto da tanti anni e non viceversa”.
Il seguito non è stato tanto meglio. Da Dinajpur il vescovo mons. Obert lo manda a Chittagong dai missionari americani della Santa Croce a imparare un po’ di inglese. Dopo tre mesi gli arriva un biglietto del vescovo che dice: “Di inglese ne sai già abbastanza, vai ad Andharkota ad imparare il bengalese e il santal”. Questi erano i metodi educativi di quel tempo. Canton va ad Andharkota e si mette a studiare il bengalese con un’insegnante. Ma da uomo attivo com’era e com’è rimasto non riusciva a stare tutto il giorno seduto a studiare. Così ha cominciato a lavorare con i muratori locali che stavano costruendo la casa dei padri, poi hanno iniziato la casa delle suore e la scuola elementare. Canton racconta:
“I soldi non c’erano, eravamo tutti poveri. Ma in quel tempo il governo americano mandava alle missioni tonnellate di aiuti alimentari,vagoni e vagoni di carri ferroviari con latte in polvere, burro salato, farina, formaggio, gallette, piselli in polvere, olio, grasso animale, ecc.; e poi sapone, stoffe, attrezzi di lavoro, ecc. Volevano che noi distribuissimo tutto gratis, ma non capivano che sarebbe stato diseducativo, bisognava insegnare a lavorare e creare lavoro per i poveri. Così io pagavo gli operai metà in soldi e metà in cibo americano, che a volte loro rivendevano per comperare il riso e i loro condimenti”.
Gli chiedo se sapeva già come si costruisce una casa, perché in Italia non è comune che un prete abbia fatto il muratore o il capomastro. Padre Angelo risponde:
“Non sapevo nulla di come si costruisce una casa, ho imparato lavorando e studiando su un libro che mi ero portato dall’Italia. Allora noi missionari giovani eravamo mandati allo sbaraglio, bisognava arrangiarsi e il Signore mi ha aiutato. Io facevo i progetti delle costruzioni e poi le seguivo giorno per giorno. Alla fine di una giornata di lavoro, andavo a giocare a pallavolo con gli operai e alla sera andavo a letto stanchissimo ma contento. Ho imparato il bengalese lavorando e giocando con i lavoratori della missione. Una vita bella, piena di gioia”.
Padre Angelo racconta ancora questa piccola avventura andata a buon fine. Voleva ricostruire la chiesa fatiscente, ma il parroco, padre Angelo Pinos, non voleva. Una volta, Pinos parte in visita ai villaggi della missione e sta lontano dieci giorni come previsto. Quando torna ad Andharkota in moto, da lontano vede il villaggio ma non la chiesa. Si ferma, scende della moto, pulisce bene gli occhiali e guarda con attenzione, ma la chiesa è davvero scomparsa. Mistero! Arriva a casa e capisce subito. Canton l’ha distrutta e sta già facendo le fondamenta della nuova chiesa! Questo lo stile di padre Angelo e dice che, alla fine, padre Pinos era contento anche lui di avere una chiesa nuova!
Dopo due anni ad Andharkota, dove ha anche imparato un po’ di bengalese e di santal, nel 1955 padre Canton viene mandato a Borni, un paese quanto mai isolato nella pianura del Gange. Trova un po’ di cristiani che gli vogliono bene e lo seguono.
Anche qui padre Angelo trova una missione priva di strutture e incomincia subito a costruire, anche per far lavorare tutti, uomini e donne, nonostante la resistenza degli uomini, cristiani ma con una tradizione ancora musulmana: le donne dovevano rimanere in casa o lavorare nei campi, ma Angelo le tira fuori e dà loro un lavoro. Costruisce la scuola obbligando tutte le famiglie a mandarci bambini e bambine.
“Quando sono arrivato a Borni nel 1955, attorno al nostro villaggio c’erano un po’ di campi coltivati e poi foreste e steppa non coltivata. Io ho fatto dissodare i terreni, portando anche i primi trattori in quella regione e abbiamo coltivato molto e bene, anche con tecniche nuove. Producevano 5-6 quintali di riso all’ettaro, poi ne producevano 20-22, con due raccolti all’anno. I bengalesi che vivevano in città a Dacca venivano dalla capitale a Borni per prendere la terra degli indù, che li cedevano a bassissimo prezzo e andavano in India. Oggi purtroppo il dramma è che non c’è più terra disponibile, è tutto intensamente coltivato.
Padre Angelo invita le suore di Maria Bambina e arrivano tre giovani italiane. I musulmani erano ammirati e dicevano: “Guarda il padre, dev’essere un uomo importante e ricco, perchè ha sposato tre donne in un colpo solo”. Dopo l’arrivo delle suore la missione è migliorata molto per le scuole, la sanità, il lavoro e la promozione femminile.
”Il maggior successo – dice ancora Canton – l’ho ottenuto facendo lavorare i cristiani assieme nei progetti parrocchiali che erano tanti, anche perché la parrocchia di Borni era stata battezzata “Affori-Est”, in quanto gemellata con la parrocchia di quel quartiere di Milano, dove aveva lavorato per pochi anni padre Luigi Oggioni, morto presto di cancro nel 1955.
”Il gemellaggio è stata una fortuna, mi ha permesso di finanziare tanti progetti. Però ho lottato per anni perché i cristiani, pur poveri, si tassassero per sostenere le iniziative della parrocchia e ci sono riuscito. Ogni capofamiglia versava 20 take al mese (circa 800 lire degli anni settanta, n.d.r.).
“I musulmani erano ammirati perché i cristiani lavoravano assieme, cosa poco comune in Bengala dove ci sono molte divisioni, contrasti, invidie, vendette, lotte anche fra le famiglie e la gente di un villaggio. Prima abbiamo costruito le scuole elementari, poi la “High School” (scuola media), poi la scuola superiore, la seconda cattolica nella diocesi di Dinajpur, riconosciuta dal governo. I nostri alunni e alunne, ospitati negli ostelli della missione e assistiti dalle suore, riuscivano sempre i primi negli esami e concorsi”.
Durante la guerra di liberazione per la nascita del Bangladesh (1971) la missione di Borni, nell’interno di campagne e foreste, lontana da ogni via principale di comunicazione, ha ospitato 200-300 indù e anche diversi guerriglieri e i loro capi. “Se i pakistani li avessero trovati – dice Canton – avrebbero distrutto tutta la missione. Allora avevo con me padre Angelo Rusconi, che ha organizzato bene l’assistenza e teneva registrato e al sicuro tutto l’oro e l’argento dei profughi indù (i monili delle donne quando si sposano), che poi abbiamo restituito”.
Questa ospitalità a centinaia di persone, a rischio della propria vita, ha aumentato la fama della missione anche presso i musulmani. Il Vangelo viene annunziato dando esempi concreti di carità, di amore gratuito a tutti.
Chiedo a padre Angelo quali risultati di evangelizzazione ha ottenuto a Borni nei più di vent’anni della sua presenza. Risponde:
“Quando sono arrivato nella parrocchia nel 1955 i battezzati erano 600, 22 anni dopo sono partito dalla parrocchia ed erano 4.000, quasi tutti bengalesi.
“Ho curato molto le vocazioni: in 22 anni ho avuto 11 preti e 20-25 suore di Borni comprese diverse suore di Maria Bambina e Missionarie dell’Immacolata. Ho fatto tante iniziative per movimentare la pastorale: campagna di formazione catechistica e per l’uso dei mezzi naturali per limitare le nascite, formazione dei giovani, diffusione dell’Azione Cattolica che allora era fiorente, ecc. Alla domenica mandavo giovani e ragazze nei villaggi per animare l’incontro di preghiera e fare amicizia con i bengalesi fuori casta (“muci”) che erano indù: questa gioventù cristiana ha ottenuto le prime conversioni fra i muci”.
“Alla domenica – racconta padre Angelo – la frequenza alla chiesa era totale. Una Pasqua avevo tenuto conto di quanti venivano a confessarsi e la domenica di Pasqua ho ringraziato in predica i miei fedeli: “Bravi, il 99 e più per cento siete venuti a confessarvi per la Pasqua. Manca solo un cristiano, preghiamo perché venga anche lui”. Poi ne sono venuti, uno per uno, cinque o sei uomini, ciascuno credeva di essere l’unico!”.
Chiedo a padre Angelo se è contento della sua vita missionaria. Risponde:
“Contentissimo. Se dovessi rinascere di nuovo, farei ancora il missionario del Pime in Bangladesh. Ho sperimentato che se tu sei fedele a Dio e preghi, il Signore ti aiuta sempre e ti dà tanta gioia nel servirlo; e che il missionario fedele alla sua missione è benvoluto e aiutato da tutti, perché tutti hanno bisogno di Gesù Cristo e del Vangelo”.
Padre Gheddo su Radio Maria (2009)
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