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Siamo nel mese missionario e noi oggi ci rendiamo conto che la missione della Chiesa è in crisi. Molti si chiedono: perchè la missione alle genti, quando siamo noi in crisi di fede e i popoli stanno riscoprendo i loro valori religiosi?

C’è una crisi di fede nel nostro popolo, che è la sofferenza di noi tutti credenti. Viviamo in un mondo sempre meno cristiano, in una Chiesa che sta perdendo la sua carica missionaria. Che senso ha la giornata missionaria mondiale e la nostra vocazione missionaria?

I) RICUPERARE UNA FORTE FEDE IN CRISTO UNICO SALVATORE

1) La missione è fondata sulla fede, ma oggi la crisi della nostra società, e anche del mondo cattolico, é una crisi di fede.

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Non é in crisi lo spirito religioso, la religiosità: a Milano ci sono più di 4.000 maghi, indovini, sette, sedi di centri spiritici… In Italia ci sono 120.000 maghi, indovini, centri spiritici, sette orientali, cartomanti, facitori di oroscopi, con bilancio annuale di 15.000 miliardi di lire! Un italiano su cinque consulta gli indovini almeno una volta l’anno…. Appena si sparge la voce che c’é un’apparizione o un “miracolo”, la gente corre in massa. Tutti sentono il bisogno del trascendente, dell’Assoluto.

E’ in crisi invece la fede in Cristo, unico Salvatore dell’uomo, dell’umanità.”Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebrei, 13, 8); in Atti (4, 12) Pietro dice: “Gesù Cristo e nessun altro può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci”.

Viviamo non in una società di atei, ma di idolatri. Se non credessero a niente sarebbe meglio: invece credono negli idoli, negli “dei falsi e bugiardi”, come si diceva una volta, Il Dio fatto uomo in Cristo è stato sostituito dagli idoli: denaro, sesso, carriera, potere, gloria, superstizioni.

E’ Gesù che fa problema, è Gesù che fa scandalo. Gesù crocifisso è “scandalo per gli ebrei e follia per i pagani” diceva San Paolo (1 Cor. 1, 23). Ancor oggi è così.

Il sociologo Franco Garelli conclude una sua indagine dicendo che oggi in Italia “la religione è forte ma la fede vacilla” (“Forza della religione e debolezza della fede”, Il Mulino 1996). I battezzati nella Chiesa cattolica sono il 96% degli italiani, ma solo “il 30% va in chiesa tutte le domeniche”; e il 33% di questi “praticanti regolari”, che recitano ogni domenica il Credo dove proclamano di aspettare “la vita del modo che verrà”, dichiarano poi che “non si può sapere cosa ci attende dopo la morte”.

Leggo certi articoli sulla stampa cattolica e anche missionaria e a volte mi chiedo: dov’è finito Gesù Cristo? Si parla di tanti problemi, si prospettano tante soluzioni politiche, psicologiche, sociali, culturali, scientifiche, economiche… Gesù Cristo dov’è finito?

2) Due pericoli per la fede oggi, ricordati dall’enciclica “Redemptoris Missio”, che riducono al nulla la missione:

a) Secolarizzazione della salvezza. “La tentazione oggi é di ridurre il cristianesimo ad una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere. In un mondo secolarizzato é avvenuta una

graduale secolarizzazione della salvezza, per cui ci si batte, sì, per l’uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale” (RM 11).

Questa tentazione é molto forte: il cristianesimo é ridotto ad una specie di “religione dell’umanità” (come volevano gli illuministi del Settecento), la Chiesa come società filantropica e di riferimento morale. Parliamo tanto di fame nel mondo, di diritti dell’uomo, non parliamo mai della fame di Dio e dei diritti di Dio. Sembra che noi missionari andiamo ai popoli più poveri per portare aiuti, curare i malati e i lebbrosi… Invece andiamo anzitutto per portare Gesù Cristo: ma questo non è quasi mai ricordato!

Oggi non é in crisi la Chiesa come istituzione. Anzi, é accettata ed esaltata come strumento di pace sociale, come richiamo all’etica, come assistenza ai poveri e agli handicappati. La Chiesa pilastro della società capitalistica avanzata, ma non perché predica Gesù unico Salvatore dell’uomo!

Si tenta di salvare il cristianesimo come sistema morale e consolatorio dell’uomo alienato dal capitalismo e dal materialismo, passando dal messaggero al messaggio, cioè da Gesù Figlio di Dio, unico Salvatore dell’uomo, ai “valori morali” che sarebbero comuni a tutti. La gente ha fame e sete di Dio e noi le diamo il “discorso dei valori”, che nella fede ha valore solo se centrato sulla persona di Gesù unico Salvatore.

b) Relativismo e intellettualismo religioso. “Una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l’impegno missionario é la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo anche tra i cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntate ad un relativismo religioso che porta a ritenere che una religione vale l’altra” (RM 36).

Il relativismo religioso, molto diffuso nella nostra società, viene in parte anche dalla tendenza dominante oggi in teologia di “razionalizzare la fede”, cioé rendere la fede così logica e comprensibile, che tutti possano accoglierla, accettarla. No, la fede é rottura, la fede é andare contro-corrente rispetto alla logica umana. I teologi invece vogliono spiegare l’inspiegabile, vogliono quasi togliere il mistero: ma Dio lo incontriamo nel mistero, nella fede.

Ecco quindi la fede ridotta a conoscenza intellettuale, a problematica intellettuale, a teologia ed esegesi biblica staccate dalla vita. Mi fa un po’ paura come si studia teologia oggi nei seminari e nelle facoltà teologiche anche per laici e suore.

Quarant’anni fa era una teologia essenziale, che dava certezze, cioé trasmetteva la fede e le spiegazioni su cosa é la fede, su cosa dobbiamo credere. Oggi invece non c’è più nessuna certezza, viviamo il tempo del dubbio, della razionalizzazione della fede: tutto é ricerca di novità, tutti si buttano sull’ultimo teologo o l’ultimo biblista o l’ultimo moralista che ha la teoria più ardita o più condannata dalla Chiesa (i successi di Leonardo Boff, di Hans Küng, di Drewermann).

Basta che un teologo sia condannato o richiamato dalla Chiesa, e tutti lo studiano, lo traducono, lo diffondono. Pochi anni dopo sono dimenticati: guardate a Leonardo Boff, in Brasile è del tutto dimenticato anche da coloro che lo avevano esaltato! Sono mode del momento: “Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine” (Ebrei 13, 9).

Non capisco perché, col patrimonio meraviglioso che abbiamo ereditato dal passato, in campo spirituale e teologico, c’é sempre la smania di novità, più che la riscoperta e l’apprezzamento della nostra grande Tradizione. Ai giovani chierici che entrano da adulti in seminario, che non sanno quasi nemmeno il catechismo, si riempie la testa di “problematiche teologiche e bibliche” in modo da confondere la fede che hanno.

L’intellettualismo è la piaga di una società avanzata come la nostra. Tutto è ridotto a problema intellettuale, a gioco dei sofismi. Molti teologi rendono complicata la fede, mentre è semplice, elementare, la capiscono i piccoli e i semplici. “Ti ringrazio, o Padre, che hai rivelato queste cose ai semplici e le hai nascoste ai sapienti” (Matt. 11, 21; Luc. 10, 21).

Per concludere questa prima parte: dobbiamo ricuperare una forte e viva fede in Cristo unico Salvatore dell’uomo, unico scopo della nostra vita. La missione è fondata su questa convinzione: se la fede vacilla, la missione non ha più senso.

Noi la fede ce l’abbiamo, certamente, ma Marcello Candia ripeteva spesso: “Signore, aumenta la mia fede!”. E quando gli dicevo che di fede ne aveva tanta, mi rispondeva: “Ma la fede non basta mai!”. Com’è la nostra fede? Può essere una fiammella che vacilla e si spegne con un soffio, oppure un solo che illumina e riscalda.

II) LA FEDE E’ AMORE E PASSIONE PER CRISTO

1) Alla radice della missione non c’è solo la fede come assenso intellettuale, ma la fede come amore e passione per Cristo che trasforma tutta la vita. La missione della Chiesa non è di insegnare una dottrina, un codice morale; ma comunicare una vita, un’esperienza di vita. Se non si vive di Cristo, come si può comunicarlo?

Il Papa lo dice con chiarezza: la missione è comunicazione di un’esperienza, per cui “il vero missionario é il santo” (RM 90).

Bisogna personalizzare la fede, che è incontro personale con Cristo. Su Gesù io posso fare tutti i ragionamenti teologici e le esegesi bibliche che voglio, ma sostanzialmente sono chiamato, nella mia piccolezza, ad innamorarmi di lui. Questa è la chiave di volta della vita, che dà senso e gioia all’esistenza, che riempie i giorni e le notti di un sentimento inesprimibile di pienezza, serenità, pace del cuore, dolcezza, tenerezza, ottimismo, forza, coraggio, gaudio, festosità, giovinezza…

Esempio di Messori che legge il Vangelo per la prima volta a 23 anni. Nato in una famiglia modenese atea, a 23 anni, mentre studia all’Università di Torino, scopre nel Vangelo le risposte agli interrogativi che si poneva da anni.

Mi dice Vittorio: “Io non so che impressione faccia il Vangelo a voi che fin dall’infanzia siete stati abituati a leggerlo ed a sentirlo commentare. Forse vi manca il dono dello stupore e delle lacrime. Per me era la prima volta che prendevo in mano quel libretto sempre disprezzato. Avevo già letto centinaia di libri, avevo cercato invano una parola di verità e di pace in filosofi, ideologi, politici, maestri del dubbio.

“In quel luglio 1964, leggendo per la prima volta il Vangelo, mi successe una cosa sconvolgente, una grazia di Dio: ho cominciato a piangere. Passavo dallo stupore al pianto, dalla commozione alla gioia, dall’ammirazione alla voglia di gridare a tutti quel che avevo scoperto: Gesù di Nazareth è veramente l’unico Salvatore del mondo!

“Pensa cosa vuol dire leggere per la prima volta, con la freschezza di un giovane che cerca la sua via, il discorso delle Beatitudini. E’ il mondo alla rovescia. Mi ricordo che continuavo a ripetermi: ma allora, se Gesù è veramente il Figlio di Dio, qui cambia tutto, la vita ha un altro significato. Improvvisamente capivo che tutta la cultura illuministica, della sola Ragione, ti dà molto, ma non la cosa essenziale: non ti salva. La cultura moderna dà risposte sofisticate per i bisogni penultimi dell’uomo, non per quelli ultimi. Solo il Cristo Salvatore dà una risposta adeguata a tutti i bisogni, a tutte le aspirazioni dell’uomo”.

Noi che conosciamo Cristo da tanti anni, abbiamo conservato questa capacità di stupore e di amore, come risposta alla provocazione del Vangelo?

2) Io credo che noi preti, suore, educatori, catechisti, insegnanti, predicatori, dobbiamo preoccuparci, prima che della “dottrina da insegnare”, di fare una profonda esperienza di Gesù nella nostra vita e di trovare i termini giusti per comunicarla.

A volte ripenso alle lezioni di “Omiletica” che ci facevano in seminario durante gli anni di teologia. Ci insegnavano come si fa una “Omelia”: si studiavano le fonti bibliche e teologiche, lo schema e la logica del discorso, i contenuti delle varie parti, le dimostrazioni adeguate per le singole verità, le citazioni appropriate, il modo di iniziare e di concludere, il tono della voce, come si gesticola e via dicendo.

Tutto bello e giusto, ma dimenticavano di dirci l’unica cosa importante: che la predica o l’omelia deve raccontare come ci si innamora di Gesù Cristo, deve portare chi ascolta a commuoversi perchè non c’è innamoramento senza commozione. La missione della Chiesa non è di insegnare una dottrina, un codice morale; non è ricerca di proseliti per sentirci forti, ma comunicazione di una vita, di un’esperienza di vita. Se non si vive di Cristo, come si può comunicarlo?

Personalmente, chiedo sempre al Signore di rinnovarmi ogni giorno il gioioso stupore e l’entusiasmo della prima Messa che ho celebrato, di concedermi il dono delle lacrime per commuovermi pensando che, io, povero peccatore, chiamo sull’altare il mio Dio e lo distribuisco in cibo all’umanità affamata.

Bisogna che la Chiesa e noi preti torniamo a parlare soprattutto di Gesù Cristo, della persona di Cristo, dell’incontro con Cristo. Gesù non è un problema culturale da discutere, ma anzitutto il Figlio di Dio da amare: questo dovrebbe risultare sempre chiaro, mentre spesso non lo è. Da certe prediche o conferenze culturali, cosa porta a casa l’uomo comune, il giovane? Una grande noia…

3) Un altro aspetto da rilevare sull’educazione alla fede è di non mettere quasi solo l’accento sulle opere caritative a cui tutti dobbiamo collaborare (aiuto ai poveri, ecc.), ma ricordare continuamente ai battezzati che tutti siamo chiamati alla santità: questo il primo impegno e dovere del cristiano, da qui viene poi tutto il resto. Oggi la Chiesa rischia di apparire come un’agenzia umanitaria, una specie di Croce Rossa Internazionale di pronto intervento per i casi più urgenti, nei quali lo stato è carente o non basta con le sue strutture.

Enzo Bianchi, ragionando su questo tema, scrive: “La pastorale dominante oggi nelle parrocchie è quella che porta i nomi del volontariato, dell’impegno, dell’attivismo, in cui cioè un cristiano passa praticamente il suo tempo di vita ecclesiale solo in opere filantropiche, impegnato nell’organizzazione della carità. Tutto questo trasforma la Chiesa in una istituzione filantropica tra le altre, che non è più in grado di pronunziare quella parola di salvezza…” (“Ricominciare nell’anima, nella Chiesa, nel mondo”, a cura di Marco Guzzi, Marietti 1991, pag. 50).

San Paolo diceva di essere stato “afferrato da Cristo Gesù” (Filippesi, 3, 12) : “Mihi vivere Christus est”, per me vivere è Cristo. E aggiuge: “Quello che per me era un vantaggio, per amore di Cristo l’ho ritenuto una perdita. Considero ogni cosa come un nulla in confronto alla suprema conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e e tutto ritengo come spazzatura, pur di guadagnare Cristo” (Filippesi, 3, 7-8).

Lo stesso Paolo esclama: “La carità di Cristo ci spinge” (“Charitas Christi urget nos”, 2 Cor. 5, 14); “Chi potrà separarci dalla carità di Cristo?” (Rom. 8. 35).

Gli esegeti hanno contato nelle lettere di San Paolo 164 volte l’espressione: “In Christo”, cioè la vita in Cristo.

La prima domanda che dobbiamo farci, noi battezzati, è questa: cosa conta Cristo nella mia vita? E’ la fede in Cristo che guida tutti i miei criteri di giudizio e le mie azioni? Ho la passione per Gesù Cristo, oppure é una figura sfumata, che dice poco? Sono convinto che la sfida della mia vita cristiana é l’imitazione di Cristo, essere innamorato di Cristo?

E’ molto facile nel nostro tempo vivere una vita superficiale, travolti come siamo dal vortice delle occupazioni quotidiane. Dobbiamo continuamente dirci: non fare una vita superficiale, la

vita cristiana è una consacrazione, una concentrazione non una dispersione. “Se sarete quello che dovete essere – diceva Giovanni Paolo II ai cattolici italiani a Loreto (aprile 1985), citando Santa Caterina da Siena – metterete fuoco tutta l’Italia”.

La vita cristiana è consacrazione, concentrazione, non dispersione. E’ imitazione di Cristo. Scrive San Giovanni (1 Giov. 2, 3-6): “Da questo sappiamo d’aver conosciuto il Cristo: se osserviamo i suoi Comandamenti. Chi dice: ‘Lo conosco’, ma non osserva i suoi Comandamenti, è bugiardo e la Verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato”.

III) LA FEDE E L’AMORE A CRISTO DIVENTANO MISSIONE

Paolo VI dice nella Evangelii Nuntiandi che il primo ostacolo all’evangelizzazione è la mancanza di fervore e di zelo, che rende scoraggiati e privi di entusiasmo gli evangelizzatori:

“Noi ci limiteremo a segnalare la mancanza di fervore, tanto più grave perchè nasce dal di dentro; essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse e soprattutto nella mancanza di gioia e di speranza. Noi pertanto esortiamo tutti quelli che hanno, a qualche titolo e a qualche livello, il compito dell’evangelizzazione, ad alimentare il fervore dello spirito” (“Evangeli Nuntiandi”, 80).

Secondo san Tommaso la carità pastorale è il primo elemento del sacerdote (e, possiamo aggiungere, della persona consacrata).

Parliamo allora della “passione missionaria” partendo dall’icona di Cristo Buon Pastore.

La parabola del Buon Pastore è in Giovanni 10, 1-21: “Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche quelle devo condurre e ascolteranno la mia voce e si farà un solo gregge e un solo pastore”.

Due elementi nel pastore: autorità e bontà, amore alle pecore. Gesù parlava con autorità ma anche con bontà, con amore, fino a dare la vita per le pecore.

In sintesi possiamo dire che Gesù aveva la “carità pastorale” verso le pecore. Anche noi siamo chiamati ad essere come lui.

1) Gesù era mandato dal Padre. Quando parla si riferisce sempre al Padre che l’ha mandato, parla come il Padre gli ha detto di parlare, rispetta la volontà del Padre, obbedisce in tutto al Padre. La sua autorità veniva da Dio, era unito a Dio, faceva la volontà di Dio, parlava con l’autorità di Dio.

Ecco il primo elemento della nostra “carità pastorale”: vivere nella grazia di Dio, pienamente disponibili alla volontà di Dio, amare Dio e sentire che Dio ci ama e ci protegge in tutto.

Lo Spirito Santo “protagonista della missione della Chiesa” (Cap. III della R.M.). Sarebbe un tema da sviluppare: la missione non è nostra ma dello Spirito; la conversione delle anime non viene da noi ma dallo Spirito… Ecco perchè a noi è richiesta la docilità allo Spirito Santo: siamo solo suoi strumenti!

2) Il rapporto di Gesù con le sue pecore è un rapporto di amore, che l’ha spinto a farsi uomo e a dare la vita.

Le pecore sono la nostra vita, non il nostro mestiere: dobbiamo amare le anime a noi affidate.

Quando Gesù moltiplica i pani e i pesci, vedendo la folla che lo segue dice: “Ho compassione di questa folla; sono già tre giorni che stanno conme e non hanno da mangiare…” (Marco 8, 3).

Che bello: “Ho compassione di questa folla!”… Poteva dire: “Andate in pace… Perchè non si sono comperati da mangiare…?”.

Anche noi dobbiamo avere un cuore pieno di amore per le anime, per la gente, per quelli che si rivolgono a noi e chiedono qualcosa. Conserviamo la capacità di commuoverci alla vista delle miserie degli altri. E sentiamo la responsabilità delle anime: la nostra vita consacrata a Dio è consacrata anche al prossimo, alla rpima carità che è quella spirituale.

Quante volte capita di vedere o sentire persone in difficoltà: il nostro primo pensiero è di pregare per loro, di esaminare se possiamo fare qualcosa, dire una buona parola… Non tiriamoci indietro! Com’è triste a volte sentire un prete, una suora che dicono: “Questo non spetta a me. Io ho già fatto fin troppo…”.

Gesù era cercato e richiesto da tutti. Il Vangelo dice che era così tanta la folla che lo premneva, che “non avevano neppure più il tempo di mangiare”… Gesù si ritira a pregare e i discepoli lo rincorrono dicendogli: “Tutti ti cercano!”… La folla era così tanta che per portargli un malato scoperchiano il tetto della casa e lo calano giù…

Che bella espressione: “Tutti ti cercano!”.

Gesù parlava con autorità ma anche con amore alla gente e tutti lo cercavano. Anche i farisei avevano autorità, ma non amore: nessuno li cercava.

Ciascuno di noi deve chiedersi: io, prete di Cristo, creo attorno a me l’amore o il vuoto? Ho molte persone che mi cercano, oppure vivo isolato e nessuno ha bisogno di me?  

Mi lamento a volte perchè sono troppo occupato oppure ho tanto tempo libero e non so cosa fare? Coltivo una mentalità stretta, fiscale, per cui io faccio il mio dovere ma niente di più che quello? Dico più facilmente di no o di sì alle richieste che mi vengono rivolte?

Ho scritto la storia del Pime in Brasile. Vi leggo la testimonianza che mi ha dato un anziano missionario, Francesco Fantin, in Brasile da circa 50 anni. Gli ho chiesto qual’era lo spirito dei missionari di quel tempo e lui risponde:

“Avevano una grande passione missionaria di lavorare per le anime. Credo che la caratteristica comune è stata questa forte passione per le anime, spendersi tutti per aiutare spiritualmente il popolo”.

Un altro missionario, p. Domenico Girotto, al quale ho chiesto che tipo di pastorale facevano quando hanno fondato le parrocchie nel Paranà, negli anni quaranta e cinquanta, mi ha detto:

“La nostra pastorale era di essere sempre disponibili per la gente. Venivano a prendermi a cavallo o in auto e andavo. Quando sapevano che c’era un prete, tutti accorrevano. Allora si faceva il catechismo, si celebrava la Messa e i matrimoni, si confessava nottate intere”.

Ho detto a padre Girotto: “Confessavate tutta la notte?”.

Ha risposto: “Sì, c’erano code ai confessionali fino al mattino, anche alle due, tre, quattro di notte. Se c’era il prete si riempiva la chiesa, ad ogni ora. Era un popolo abbandonato, avevano veramente bisogno del prete… Noi ci siamo buttati dentro in questo lavoro: ci siamo dati tutti e il popolo rispondeva”.

Noi viviamo in situazioni del tutto diverse. Ma cari sorelle e fratelli, il segreto per la buona riuscita della nostra vita consacrata, è ancora lo stesso: essere, come Gesù Buon Pastore, appassionati per le anime, sacrificati, generosi verso chi ha bisogno del nostro aiuto.

Il Papa ci è di esempio: salta da una parte all’altra del mondo, affronta fatica sovrumane alla sua età e con i suoi acciacchi, solo per dire a tutti la sua passione per Cristo.

“Non possiamo restarcene tranquilli pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio” (RM, 86).

“Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso… Dobbiamo nutrire in noi l’ansia apostolica di trasmettere agli altri la luce e la gioia della fede, ed a questo ideale dobbiamo educare il Popolo di Dio” (RM, 86).

3) Chi evangelizza veramente sono i Santi: chi vive veramente il Vangelo, vale più, per la missione e la nuova evangelizzazione, di tutti i piani pastorali e i documenti, perchè il Santo “è il Vangelo vissuto oggi”. Alla santità siamo tutti chiamati e siamo chiamati per tutta la vita: come cristiani non andiamo mai in pensione!

Che bello questo pensiero: non vado mai in pensione, sono sempre in cammino, in lotta per la santità, per un amore più profondo a Cristo!

Il mondo ha bisogno di testimoni, di modelli: è stanco di chiacchiere, di documenti, di ragionamenti, di teorie, di piani pastorali. “La prima forma di evangelizzazione é la testimonianza. L’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri (E.N. 41), più all’esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie. La testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione” (RM 42).

“Il missionario – dice ancora la RM (91) – é un contemplativo in azione. Egli trova risposta ai problemi nella luce della parola di Dio e nella preghiera personale e comunitaria….Il futuro della missione dipende in gran parte dalla contemplazione. Il missionario, se non é un contemplativo, non può annunziare Cristo in maniera credibile”.

Ecco perchè Giovanni Paolo II proclama tanti Beati e Santi: dal 1605 all’ottobre 1978 (inizio del suo pontificato) la Chiesa ha avuto 812 beati e 291 santi; dall’ottobre 1978 all’ottobre 1998, 805 beati e 468 santi (quest’ultimo dato è dell’ottobre 2002): 847 i martiri uccisi per la fede. Alla Congregazione dei Santi sono aperte (ottobre 1998) 1.891 Cause.

Qualcuno dice: sono troppi. Non è vero! Ciascuno di essi rappresenta un modello, uno stimolo, una proposta positiva, mentre siamo bombardati dai modelli negativi!

Per l’evangelizzazione e la “nuova evangelizzazione” abbiamo dato troppa importanza ai documenti, ai “piani pastorali”, ai comitati di studio, alle conferenze e dibattiti teologici, e meno ai testimoni, ai santi. Crollate le ideologie, bisogna rilanciare i testimoni.

Anche per le vocazioni alla vita consacrata. Ci lamentiamo che diminuiscono, ma poi nell’animazione vocazionale siamo sempre lì a ragionare, a discutere, a problematizzare e teologizzare: i testimoni non li presentiamo. Giovani e ragazze si fanno preti e suore se hanno il cuore toccato dall’esempio di altri preti e suore, non perchè sono convinti da un bel ragionamento o da una idea teologica nuova, originale!

IV) COME RENDERE MISSIONARIE LE NOSTRE COMUNITA’ CRISTIANE?

A Loreto (aprile 1985) il Card. Ballestrero, sintetizzando tutto il Convegno ecclesiale, disse: “Dobbiamo rievangelizzare il nostro popolo con spirito e metodi missionari”. I documenti della CEI ripetono spesso che “lo spirito missionario è l’anima della quotidiana attività pastorale della Chiesa” (“Comunione e comunità missionaria”, n. 44) e che bisogna passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria, che raggiunga specialmente i “lontani”.

1) Viviamo ancora in una Chiesa poco missionaria, rivolta all’interno e non all’esterno.

Il convegno missionario nazionale di Bellaria nel 1998 aveva un bel titolo: “Il fuoco della missione”. Da vent’anni la pastorale italiana è centrata sulla missione, la missionarietà.

Si dice spesso, nei documenti e nei discorsi che si fanno, che non viviamo più in una società cristiana, però le strutture ecclesiali e le mentalità sono rimaste quelle di una volta, quando il paese e il popolo erano cristiani.

Quando il Papa pubblicò la “Redemptoris Missio” (1991) il card. Tomko disse che quel documento poteva causare nella Chiesa una vera “rivoluzione missionaria”.

A che punto è oggi il nostro “fuoco della missione”? Si potrebbe dare, rispettando la verità, una risposta molto positiva: ricordando come eravamo noi sacerdoti e le nostre comunità cristiane mezzo secolo fa, ben felici di vivere in un “paese cattolico” e in una “cultura cattolica” e di avere “il sicuro possesso della verità”, dobbiamo ringraziare il Signore del cammino che si è fatto. Abbiamo almeno capito che la Chiesa stessa è in continua tensione verso il modello evangelico. Il Card. Martini disse una volta parlando in Duomo a Milano: “Noi cristiani… o meglio, noi che vorremmo tanto essere cristiani…”.

Ma nella Chiesa italiana, sinceramente, il “fuoco della missione” (che infiamma per l’annunzio di Cristo ai non cristiani) ancora non si avverte come atmosfera generale, fatte le debite eccezioni. “Se il fuoco della missione – ha scritto un parroco (SIR, 19 maggio 1999) – è spento o langue, tutta la vita di una comunità cristiana è spenta o quasi. Se la parrocchia non sente la sfida della missione come qualificante, perde di senso e allora prende il sopravvento il rimpianto, la conservazione, il liturgismo… e il distacco dal territorio e dalla gente in genere ingigantisce a dismisura”. Bene che vada, anche tra i gruppi missionariamente impegnati, il tono dominante è il “buonismo” e l’impegno per il “debito estero” e la “banca etica”.

Nel maggio 1999, a Pentecoste, sono andato a predicare in un paese della Brianza, Brivio (Lecco). Il giovane parroco, pieno di fervore missionario, mi dice: “La mia è buona gente: più del 40% vengono a Messa la domenica. Nel panorama italiano non posso lamentarmi. Però l’entusiasmo della fede e la disponibilità per la missione contagiano pochi. Qui non c’è disoccupazione, anzi cercano operai; hanno belle case, proprietà, macchine, molto superfluo; lavorano tanto, guadagnano, accumulano, comperano e vendono. L’idolo è il denaro. Poi sono anche generosi con la Chiesa, le missioni e i poveri del terzo mondo e acquistano i prodotti del commercio equo-solidale, ma l’idolo rimane il denaro e non la missione”.

La nostra Chiesa, senza colpa di nessuno, è ancora rivolta verso l’interno e non verso l’esterno.

Pensate a tutte le attività di evangelizzazione che fa una parrocchia: per l’85-90% sono rivolte a chi già crede. La Prima Comunione impegna per mesi: tutto poi si esaurisce in una giornata, che lascia scarse tracce nella vita. Dopo i 15 anni, li perdiamo quasi tutti. La pastorale delle nostre parrocchie privilegia i bambini e trascura i giovani e gli adulti.

Si parla molto di “catechesi degli adulti”, esistono centri di studi e di formazione, riviste specializzate, congressi, testi, programmi, piani pastorali, documenti episcopali. Sembra che la “catechesi degli adulti” sia chissà cosa. Ebbene, secondo l’inchiesta fatta in preparazione al Congresso catechistico diocesano di Milano del 1984, questa “catechesi degli adulti” raggiunge l’1,8% della popolazione adulta della diocesi; e secondo un’inchiesta dell’Azione Cattolica a livello nazionale di qualche anno prima, l’1,2% degli adulti italiani dai 18 anni in su.

Quando si programma la “nuova evangelizzazione” del nostro popolo, molte azioni sono rivolte a quelli che già credono: conferenze, dibattiti, incontri con esperti, celebrazioni, piani pastorali, ecc. I credenti e praticanti sono supernutriti, ma poco missionari.

2) Per passare ad una Chiesa missionaria, bisogna formare i battezzati ad essere missionari, attivi nella Chiesa.

Noi preti dobbiamo essere meno “clericali”, non voler far tutto quel che facevamo una volta, né controllare tutto, né sapere e approvare tutto; e dare più spazio ai laici, educandoli missionariamente: dare loro la “tensione verso i lontani”, i non credenti, anzitutto quelli vicini a noi, quel 70-75 per cento di gente che in chiesa non viene quasi mai.

Il concetto tradizionale di vita cristiana non era missionario: va cambiato. Vi ricordate la risposta ad una delle prime domande del Catechismo di Pio X? “Perchè Dio ci ha creati?”. La risposta era: “Per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e poi goderlo nell’altra in Paradiso”. Era la risposta che dava una Chiesa dagli orizzonti ristretti, non missionaria. Oggi bisognerebbe dire: “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo, servirlo e farlo conoscere, amare e servire….”. E’ una rivoluzione radicale che dobbiamo fare anzitutto noi, sacerdoti, suore, operatori pastorali. La fede ci è stata data da Dio per testimoniarla e comunicarla agli altri.

Il messaggio della “Redemptoris Missio”, sintetizzato nello slogan “La fede si rafforza donandola!”, non è entrato come criterio di base nella vita delle nostre diocesi, parrocchie, associazioni: potrebbe trasformarle radicalmente.

Mi chiedo perchè non si riesca a capire e a vivere questo paradosso della fede espresso dal Papa quando dice che “la fede si rafforza donandola!” (Rm, 2). Nel campo della fede avviene tutto il contrario che, ad esempio, se parlassimo di soldi. Se uno vuol moltiplicare i suoi soldi, li tiene per sè, li mette in banca, non li dà via. Invece se uno vuol rafforzare la propria fede, deve comunicarla agli altri, a tutti gli uomini.

Il primo imperativo per una parrocchia è quindi di comunicare la “tensione ai lontani” ai parrocchiani. Diamo ai nostri cristiani l’entusiasmo della fede, la passione di evangelizzare, l’ansia missionaria di raggiungere tutti (“Non possiamo restarcene tranquilli” dice il Papa nella Rm, n. 86). E poi spingerli, sollecitarli ad azioni missionarie, qui in casa nostra, verso i lontani.

Qualcuno potrebbe dire: ma i nostri cristiani sono tiepidi, incostanti, ignoranti circa i temi della fede. Come possono diventare missionari se prima non li formiamo?

Il Papa afferma, nella “Redemptoris Missio”, che la soluzione alla nostra crisi di fede è la missione.

Così pensava anche Gesù. Nel Vangelo di Marco si legge che Gesù risorto appare alle donne e poi ai due discepoli di Emmaus, infine ai suoi apostoli (Marco, 16, 14-16): “Alla fine Gesù apparve agli undici Apostoli mentre erano a tavola. Li rimproverò perchè avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a quelli che lo avevano visto risuscitato. Poi disse loro: ‘Andate in tutto il mondo e portate il Vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo; ma chi non crederà sarà condannato'”.

Ma come! Gli Apostoli non credono, sono tutti dubbiosi e paurosi, e tu Gesù li mandi nel mondo? Digli piuttosto di stare a Gerusalemme a pregare e studiare la tua parola, i tuoi esempi; digli di fare un po’ di noviziato, di rafforzarsi nella fede, di approfondire esegeticamente e teologicamente quello che tu hai detto, di studiare i rapporti della fede in Cristo con l’ebraismo e la filosofia greca… e poi andranno ad annunziare il Vangelo. Cosa vanno a dire se non ci credono o non sanno in cosa credono? Si può rispondere: gli Apostoli avevano lo Spirito Santo! Giusto, ma pensiamo forse che lo Spirito Santo è andato in pensione?

Nelle missioni in genere è così. I neofiti ricevono il messaggio di Gesù con entusiasmo, perchè causa nella loro vita una rivoluzione profonda. E spontaneamente lo annunziano agli altri, lo proclamano: la fede si rafforza donandola!

Qualche mese fa, mons. Cesare Bonivento, missionario del Pime e vescovo di Vanimo in Papua Nuova Guinea (Oceania), mi diceva che i suoi giovani cristiani sono ancora in gran parte analfabeti, sanno pochissimo della dottrina cristiana, ma hanno ricevuto la fede con l’entusiasmo dei neofiti e diventano subito missionari. Bonivento dice: “Tutto il mio impegno è di dare contenuti a questa fede, di insegnare il catechismo, di far leggere la Scrittura. Ma loro parlano spontaneamente a tutti di Gesù Cristo e di Maria, sono missionari. Io non so cosa dicono, ma mi fido dello Spirito Santo: la missione è sua!”.

3) Le nostre Chiese antiche debbono crescere nella laicità. La missione è di tutti i battezzati. La svolta missionaria alla Chiesa la daranno i laici e soprattutto le donne.

Bisogna partire dalla convinzione profonda che i primi evangelizzatori sono i laici, la gente comune che viene in chiesa. Noi preti abbiamo un compito essenziale, almeno così avviene nelle missioni: comunicare ai laici “il fuoco della missione”! Bisogna dare ai nostri laici l’entusiasmo per la fede. Allora tutto viene di conseguenza.

Tutti i laici battezzati sono missionari, in forza del loro Battesimo. “La missione è di tutto il popolo di Dio: anche se la fondazione di una nuova Chiesa richiede l’Eucarestia, e quindi il ministero sacerdotale, tuttavia la missione, che si esplica in svariate forme, è compito di tutti i fedeli” (Rm 71). La “Christifideles laici” è uno sviluppo di questo pensiero. Non intendo l’impegno dei laici nei “ministeri consacrati” o anche non consacrati, ma parlo dei laici che vivono la vita cristiana nel mondo in modo missionario.

La rivoluzione di mentalità debbono compierla anche i laici: essere cattolico oggi comporta non solo più l’osservanza della legge di Dio, la frequenza alle funzioni liturgiche, l’educazione religiosa dei figli, ma l’impegno personale di tempo, intelligenza, energie nell’evangelizzazione.

L’esempio lo troviamo in quello che era il comunismo e il PCI in Italia negli anni Cinquanta. Io mi ricordo nel mio piccolo paese in Piemonte, Tronzano Vercellese. La locale sezione del PCI era una fucina di evangelizzatori: chi diffondeva la stampa, chi attaccava i manifesti, chi andava a raccogliere le quote d’iscrizione, chi organizzava incontri e dibattiti, chi faceva dei servizi alla gente nel nome del Partito…. Conoscevo alcune di quelle persone: erano senza dubbio convinte ed entusiaste del messaggio che diffondevano e il Partito sapeva nutrire di motivi ideali il loro impegno.

La domanda che ci facciamo è questa: siamo noi capaci di dare questo stesso entusiasmo per il Vangelo e la missione di Cristo ai nostri fedeli? La nostra diocesi, le nostre comunità parrocchiali e religiose favoriscono e stimolano a sufficienza l’impegno dei laici? Oppure diamo l’idea che la Chiesa siamo noi preti e i laici sono semplicemente nostri aiutanti?

In Italia abbiamo ancora una parrocchia di tipo rurale, troppo clericale, con pochi spazi per l’azione dei laici:

a) Spesso la parrocchia è il parroco, centrata sulla figura del parroco e i suoi più stretti collaboratori: il parroco controlla tutto, decide tutto, comanda su tutto. Si sta cambiando ma troppo lentamente e non ovunque.

b) Manca nella nostra Chiesa un’integrazione fra parrocchia e forze missionarie e carismatiche: ad esempio i missionari, ma anche i “movimenti” ecclesiali, i gruppi spontanei che nascono al seguito di questo o quel movimento di spiritualità, di preghiera.

In estate vado a fare vacanza al mare. L’anno scorso sono venuti ad invitarmi per andare in una famiglia una sera a dire il Rosario. Sono andato e mi sono trovato una ventina di persone, giovani e adulti: abbiamo pregato e parlato su temi di fede tutta la serata. Mi dicono che si incontrano tutte le settimane per pregare e riflettere sui messaggi che la Madonna dà a Medjugorie. Pochi giorni dopo incontro il parroco e gli racconto di quella serata. Mi dice: “Io non sono mai andato, i vescovi hanno proibito di dare spazio a queste superstizioni. Perchè non vengono in chiesa a recitare il Rosario, invece di starsene in casa?”.

Non giudico nessuno, ma è un atteggiamento che, mi pare, non ha senso. Io posso non essere d’accordo con la devozione e i pellegrinaggi a Medjugorie, cioè rimango in attesa di avere indicazioni dai vescovi. Ma non capisco perchè un parroco debba essere dispiaciuto se delle persone si incontrano per pregare! Lo stesso ragionamento vale per i “movimenti”, che spesso nella Chiesa vivono una vita sotterranea o parallela, marginale.

Bisogna riscoprire la varietà dei carismi e dei modi di vita cristiani. Non ci sono modelli unici, né forme uniche di vita cristiana e di Chiesa. Come dice san Paolo: poichè Cristo sia annunziato…. La missione relativizza i nostri schemi: se pensi in modo missionario, vedi che per andare ai lontani la______________ _(_ntare una varietà di personaggi, schemi, movimenti: l’importante è che annunzino Cristo!

Guardate la diversità dei santi: non ne trovate due eguali.

Esemplare il contrasto fra don Giovanni Calabria e Marcello Candia all’inizio degli anni cinquanta, per l’UMMI. Candia fa l’ALAM. Schuster, che era un santo, dice a Candia: lei faccia un’altra associazione, un’altra sigla.

Se l’imperativo assoluto è la missione, l’unità per la missione, la varietà delle forme di annunzio per la missione, allora le diversità vanno superate: purchè si annunzi Cristo, c’è posto per tutti.

4) Dare ai nostri cristiani l’entusiasmo per la “missione alle genti”, “un cuore grande come il mondo”. Sentire la responsabilità della missione universale non è evadere dai problemi della parrocchia.

La missione unisce le forze e moltiplica le energie.

La missione coinvolge molta gente anche lontana dalla Chiesa. Il mondo delle missioni io credo sia oggi il miglior strumento per raggiungere i “lontani” e farli collaborare ad iniziative ecclesiali, specie sul piano della carità. Quanti esempi potrei raccontare in proposito! A Imola, il Centro missionario diocesano ha proposto alla città un “gemellaggio” con una missione in Africa: si è coinvolto il Comune – con sindaco e giunta a maggioranza comunista – ci sono state visite alla missione da parte di non credenti o non praticanti, che si sono avvicinati alla Chiesa. A Gorizia, ancora il Centro missionario diocesano riesce a coinvolgere numerose realtà locali per l’aiuto alle missioni che la diocesi ha in Africa e in America Latina: visite alle scuole da parte dei missionari, radio e giornali locali, iniziative culturali, raccolta di aiuti, volontariato laico e campi di lavoro in Africa, ecc.

La figura del missionario, forse anche un po’ mitizzata, è ancor oggi capace di suscitare pensieri di bene, emozioni, stimoli alla conversione e all’amore di Dio e del prossimo. Conosciamo i missionari della nostra diocesi? Siamo in contatto con loro? Quando tornano, invitiamo questi reduci chiedendo loro di raccontare le loro esperienze?

Infine, lasciatemi dire che la missione universale dà stimoli e modelli pastorali alla “nuova evangelizzazione”.

Nella “Redemptoris Missio” il Papa congiunge sempre missione ad gentes e nuova evangelizzazione. Fin dall’inizio quando dice: “La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale” (n. 2). “Esorto tutte le Chiese e i Pastori, i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, ad aprirsi all’universalità della Chiesa, evitando ogni forma di particolarismo, esclusivismo o sentimento di autosufficienza…. La tendenza a chiudersi può essere forte:

le Chiese antiche, impegnate per la nuova evangelizzazione, pensano che ormai la missione debbono svolgerla in casa e rischiano di frenare lo slancio verso il mondo non cristiano….Ma è dando generosamente del nostro che riceveremo” (n. 85).

In cosa le giovani Chiese sono modello alle nostre? In molti campi ecclesiali, pastorali.

a) Anzitutto nella missionarietà. Nel 1986 ho visitato la Chiesa di Corea, che è fondata sull’impegno dei laici e sull’integrazione di parrocchie e movimenti. Non è concepibile che un laico battezzato sia passivo nella Chiesa. Prima di dare il battesimo ai laici adulti che si convertono, nei due-tre anni di catecumenato il catecumeno deve già entrare a far parte di un gruppo parrocchiale, di un “movimento” e promettere di continuare in quell’impegno.

Anche in America Latina e in Africa si sono fatti grandi passi in questa direzione.

b) Le giovani Chiese, proprio perchè giovani, ci insegnano l’agilità, l’assenza di formalismo, la capacità di inventare nuove forme di annunzio. Il pericolo delle nostre parrocchie e diocesi si chiama “arteriosclerosi pastorale”, cioè la ripetitività degli atti di culto, la burocratizzazione dei servizi religiosi, il “circolo chiuso” dei praticanti. L’evangelizzazione deve essere novità, varietà, invenzione, molteplicità di appelli e di stimoli, di occasioni per conoscere e avvicinare Gesù Cristo.

E’ l’insegnamento della “fantasia pastorale”, di cui noi abbiamo estremo bisogno. Annunziare il Vangelo è un’arte, l’arte di comunicare la “Buona Notizia”, sempre uguale a se stessa ma anche sempre nuova.

c) Varietà, ma anche essenzialità. Quando diciamo che nelle Chiese di missione c’è il “primo annunzio” non vuol dire solo che cronologicamente è la prima volta che Cristo viene annunziato, ma anche che di lui si proclamano le verità più indispensabili per la fede, i contenuti essenziali del Vangelo. La nostra gente ha bisogno di tornare al nucleo essenziale della fede, che non sa più qual è.

Nelle missioni ai non cristiani si insiste sui contenuti forti della fede: la salvezza in Cristo, il peccato, la vita dopo la morte, la grazia, la preghiera, i comandamenti, il modello di vita proposto da Cristo e dal suo Vangelo. Tornare al “primo annunzio” perchè anche qui in Italia siamo in “una situazione missionaria di prima evangelizzazione”. Lasciare la ricerca e il dibattito teologico agli specialisti e ripetere instancabilmente come Pietro: “Convertitevi e credete al Vangelo”.

d) C’è un altro aspetto del “primo annunzio” che va messo in risalto, oltre a quello dell’essenzialità dei contenuti: l’annunzio del Vangelo deve suscitare emozioni, toccare il cuore della gente. In Giappone i vescovi dicono di usare “la pastorale del cuore”. Bisogna commuovere la gente come fece Papa Giovanni XXIII alla finestra del suo studio in Piazza San Pietro, col famoso discorso quando in una notte di luna piena disse: “Andate a casa e date una carezza ai vostri bambini e dite loro che è la carezza del Papa”. Ancor oggi c’è chi ricorda quella notte e si commuove. L’annunzio di Cristo non è trasmissione di dogmi, ma comunicazione di vita, stimolo alla conversione. Nessuno si mette su un cammino di conversione per una nuova teoria teologica, ma perchè si commuove e s’innamora di Gesù.

Conferenza di Padre Gheddo a Brescia (al Rinnovamento nello Spirito Santo nel 2002)

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