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La Malesia (o Malaysia come oggi si chiama) mi ha colpito favorevolmente. Con la Thailandia, è il miglior Paese del sud-est asiatico: ordinato, pacifico (da più di trent’anni non conosce guerriglie e lotte razziali), evoluto e passabilmente democratico. È una federazione di monarchie costituzionali (i famosi “sultani”), un capo dello Stato scelto fra i sultani e in carica per cinque anni, un governo e un parlamento eletti con libere elezioni. Viene elencato fra le “tigri asiatiche”, con Corea del Sud, Taiwan e Thailandia, per il tasso galoppante di sviluppo economico, superiore al 6-7 per cento di aumento annuale del Prodotto interno lordo (Pil), cioè la ricchezza nazionale. Basta un rapido viaggio attraverso il Paese (su otto diocesi ne ho visitate cinque) per rendersi conto di come l’Asia sud-orientale, dal Giappone e Cina all’India, passando per Indonesia e Malaysia, sarà nel nostro secolo il motore dell’economia mondiale man mano che riuscirà ad eliminare guerriglie, dittature e scontri etnico-religiosi.
Eppure la Malaysia è un Paese a maggioranza islamica. Il che vuol dire che l’islam può essere alla base di una comunità nazionale che vive in pace, in democrazia e nello sviluppo economico-tecnico più travolgente. È una prima conclusione importante, che smentisce certi stereotipi. Però bisogna subito aggiungere che la Malaysia (fin da prima dell’indipendenza i colonizzatori inglesi avevano fatto questa scelta) ha individuato nell’islam il fondamento della sua identità nazionale. Lo Stato è laico, ma l’islam è la religione nazionale: per cui i vari governi, pur rispettando formalmente una certa libertà di culto, in pratica appoggiano in ogni modo l’islam e le popolazioni musulmane, considerando i cristiani e gli appartenenti ad altre religioni (buddhismo, induismo, sikh) cittadini di seconda categoria. La conseguenza è che, mentre al momento dell’indipendenza i musulmani erano il 45 per cento della popolazione, oggi sono il 67 per cento, e gli appartenenti ad altre religioni (soprattutto cinesi e indiani) fuggono dal Paese per non essere penalizzati in ogni aspetto della vita civile. Questo il tema da approfondire con verifiche nei vari Paesi islamici, dove i musulmani se sono maggioranza diventano intolleranti verso i non musulmani!
Ma la seconda conclusione del viaggio, consolante, è la situazione della Chiesa nel Borneo malese (i due Stati federati di Sabah e Sarawak). Su 23 milioni di abitanti, la Malaysia peninsulare ne ha circa 17 e i cristiani sono il 5-6 per cento, ma nel Borneo malese i soli cattolici sono un milione su circa 6 (il 18 per cento), tutti i cristiani superano il 25 per cento; e vi sono molte conversioni di “nativi” (tribali) e di cinesi. Questo maggior peso demografico, e l’autonomia dei due Stati federati, dà alla Chiesa una maggior libertà e un maggior coraggio nell’evangelizzazione. Ho avuto occasione di fare alcune esperienze anche commoventi di come queste giovani comunità del Borneo sono animate dall’entusiasmo della fede e dall’estrema disponibilità dei laici (giovani e convertiti da una o due generazioni) a dare il loro tempo alla Chiesa, che manca drammaticamente di preti.
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Nel 1972, quando vennero espulsi i missionari stranieri di Mill Hill (ne rimangono alcuni, tutti anziani), nel Borneo c’era un sacerdote ogni tremila fedeli, oggi uno ogni 8 mila e i battesimi di adulti ogni anno in ogni parrocchia sono centinaia. Il governo federale proibisce l’entrata di personale apostolico (sacerdoti e suore) dall’esterno e persino dalla Malaysia peninsulare, dove c’è più abbondanza di vocazioni perché sono presenti gruppi cristiani di antica tradizione, alcuni dei quali risalenti alla prima evangelizzazione dei portoghesi nei secoli Sedicesimo e Diciassettesimo.
Piero Gheddo
aprile 2004
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