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Sono andato in Libia su invito del vescovo di Tripoli, mons. Giovanni Martinelli, OFM. Nel quadro dell’islam mondiale, la Libia è oggi uno dei paesi islamici più moderati e aperti all’Occidente: la Chiesa, composta da 50.000-60.000 stranieri (i cristiani più o meno sono 100.000, nessun libico), è libera di praticare la fede e persino di ricevere nuovi sacerdoti e suore dall’estero!
La Libia è estesa circa sei volte l’Italia, con sei milioni di libici e due milioni di stranieri che lavorano (specie egiziani, mediorientali e neri africani). Il colonnello Gheddafi, al potere dal 1969 (ha 67 anni), fino al 1986 ha seguito una linea “rivoluzionaria”: prima sposando il nazionalismo arabo-islamico di Nasser con un regime islamico-socialista, poi allineandosi alle posizioni di Khomeini, finanziando il terrorismo e la guerriglia islamica in vari paesi. Dopo che nel 1986 Reagan fece bombardare le sue sei residenze (grandi e lussuose tende in cortili di caserme), Gheddafi cambiò radicalmente politica interna, anche se rimane un dittature e in campo internazionale continua a fare discorsi contro l’Occidente e sulla “rivoluzione mondiale” dell’islam. In pratica, oggi in Libia l’islam è controllato strettamente dal governo e non è estremista, mentre il paese è pieno di occidentali (compresi molti italiani e persino americani!) che importano prodotti e tecnologie di cui il paese ha bisogno.
Gheddafi usa i grandi capitali del petrolio per sviluppare il paese: strade, case moderne, scuole e strutture sanitarie, soprattutto estrazione dell’acqua dolce nel deserto con grandi tubi sotterranei per portarla fin nel nord della Libia. Nel deserto del Sahara, a mille e più metri di profondità, c’è un mare di acqua dolce, con la quale si sta popolando il deserto. Sono stato a Sebha, città di 80.000 abitanti a 850 km. da Tripoli verso il sud, circondata da villaggi e cittadine in campagne coltivate, con canali, laghetti, prati, piante, giardini. Il lavoro più pesante lo fanno i neri che vengono dai paesi del sud (Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Burkina Faso, Niger, ecc.) e vogliono venire in Italia: intanto lavorano per i libici, fino a che hanno denaro a sufficienza per fare il balzo verso l’Europa.
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La breve permanenza in Libia mi ha fatto capire il valore della presenza di una piccola minoranza cristiana in un paese totalmente musulmano. Il vescovo di Tripoli mi ha detto: “La testimonianza che danno i cristiani è molto importante, specialmente dopo che nel 1986 Gheddali ha scritto a Giovanni Paolo II una lettera chiedendo suore italiane per i suoi ospedali”. Un gesto che va spiegato. Il padre di Gheddafi, colpito in uno dei bombardamenti di cui s’é detto (è morta una figlia del capo libico e la moglie è rimasta paralizzata), è stato assistito fino alla morte da suore infermiere italiane, che hanno suscitato l’ammirazione del grande capo libico. In Libia ci sono buone strutture ospedaliere e sanitarie, manca quasi del tutto il personale medico e infermieristico. In seguito alla richiesta di Gheddafi sono arrivate suore di varie nazionalità, italiane, polacche, libanesi, indiane, coreane e filippine. Queste ultime hanno portato in Libia circa 10.000 infermiere cattoliche, con le loro famiglie.
“Queste infermiere, dice mons. Martinelli, suscitano ammirazione e riconoscenza. In Libia sono 10.000 e danno una testimonianza significativa, perchè donne cristiane, competenti e tante: nei principali ospedali di Tripoli sono tutte loro. Questo stile di servizio e di testimonianza delle filippine è anche una forma di dialogo e di apertura verso i musulmani, che certamente li fa riflettere, attraverso loro capiscono i valori cristiani più di qualsiasi discorso. Dico questo per le molte testimonianze che ricevo dai musulmani, che ringraziano di questa presenza, e anche dalle filippine che sono contente di essere apprezzate. La filippina per natura è paziente, comprensiva, gentile, si adatta facilmente a situazioni diverse. Lo stesso discorso vale per le infermiere indiane cattoliche o cristiane che vengono dal Kerala; e vale per i profughi dall’Africa nera che ormai sono tanti, lavorano bene in tutti i campi e hanno un forte senso di appartenenza e di identità cristiana. Il libico è rispettoso per natura, è tollerante e sa capire se uno veramente crede o no. Nelle compagnie italiane o non italiane che lavorano specie per il petrolio, le persone che credono si manifestano e suscitano amicizia e ammirazione nei musulmani”.
A Sebha vive “il parroco del deserto”, padre Vanni (Giovanni) Bressan, una vita avventurosa. Nato a Venezia nel 1931, medico dell’Università di Padova, è entrato nella SAM belga (Società ausiliari missioni), ha lavorato come medico e prete a servizio di vescovi locali in Pakistan, Afghanistan, Iran e dal 1989 in Libia, chiamato dal vescovo di Tripoli. Come medico, il governo l’ha mandato nell’ospedale di Sebha dove c’erano pochi cattolici. Oggi sono circa 20.000 nella città e nella regione, quasi tutti africani: a Sebha su 80.000 abitanti, 10.000 neri, di cui 3.000-3.500 cattolici. Padre Bressan ha ottenuto i permessi per la prima chiesa nel deserto e la prima scuola cattolica in Libia; non solo, ma ha altre quattro cappelle a Brak, Murzuk, Ubari e Ghadames (da 80 a 500 km. da Sebha): ci va una volta al mese. Fa ancora il medico in ospedale, continua in attesa di un altro prete che vada con lui: ma non lo trova!
“I miei cristiani – mi dice – sono giovani e preparati, io dò solo la copertura e l’assistenza spirituale, ma fanno tutto loro, si dividono in gruppi, inventano lavori e servizi ecclesiali e sociali. Io sono l’unico prete, ho 75 anni e la parrocchia ha molti settori e gruppi: teatro, canti, assistenza agli anziani, scuola e oratorio, visite alle famiglie e agli ammalati, bambini, aiuto ai poveri, gruppo biblico, visita ai lontani per ricondurli alla Chiesa, ecc. Appartengono alla Legione di Maria e ai Carismatici cattolici e sanno organizzarsi da soli senza prete. Sarebbero una risorsa per la Chiesa italiana. Anni fa sono stato a Londra, un pastore anglicano mi diceva: “Alcune nostre chiese o parrocchie si sono rinvigorite perché sono arrivati tanti di questi africani giovani ed entusiasti della fede”.
Vanni riesce a fermare a Sebha alcune famiglie che trovano una buona sistemazione, ma il sogno rimane l’Italia. Ha già aperto una scuola per i bambini e vorrebbe iniziare una scuola per le donne insegnando infermieristica, cucina, taglio e cucito, lavoro di parrucchiera: “Gli africani a Sebha sono circa 10.000, lavorano tutti e sono molto stimati, quindi hanno un po’ di tranquillità e di stipendio che permette di risparmiare. Questi ragazzi sono buoni, gente semplice, lavoratori, cordiali. I cristiani sono molti, cattolici o protestanti, che fuggono dai paesi a sud del Sahara. Sono attaccati alla fede e alla Chiesa, entusiasti della fede”. A Sebha, ogni martedì si fa la veglia biblica nella chiesa parrocchiale. Un’ora di adorazione, poi il Rosario, molti canti, leggono il Vangelo e ciascuno esprime la sua riflessione. La veglia incomincia alle 22, padre Vanni parla a mezzanotte in francese e in inglese e torna a casa a dormire. “Ma loro vanno avanti a pregare fino alle due di notte, poi dormono su tappeti per terra in chiesa e nelle sale della parrocchia. Al mattino vanno a lavorare. Ammiro molto il movimento carismatico che dà questa carica di entusiasmo e capacità di sacrificio”.
Al lunedì c’è l’incontro dei “teaching ministries” nigeriani (ministri della parola), dalle 20 alle 22. Ho assistito ad un incontro sul Vangelo della domenica seguente. C’erano 16 ministri, uomini fra i 25 e i 35 anni di età, giovani forti e vigorosi, animati, entusiasti del loro compito. Non ho capito tutto quel che dicevano (la pronunzia dell’inglese è un problema in tutto il mondo!), ma ho ammirato la loro fede, l’attaccamento alla Bibbia e alla Chiesa e ho parlato dieci minuti per incoraggiarli. Vanno poi nelle case per spiegare il Vanngelo. I neri vogliono ciascuno la propria Bibbia. Vanni le importa in inglese e francese e se uno non può pagarla, la regala, ma in genere le pagano. Per loro 8-10 Euro è una bella cifra (un pranzo al ristorante costa 3 Euro per due persone, n.d.r.) e padre Bressan non possiede risorse per fare tutto quel che vorrebbe.
“Io non conoscevo i carismatici, dice. All’inizio, quando alcuni si presentavano come predicatori e catechisti, mi sentivo quasi diminuito nella mia autorità di parroco. Poi ho visto che, lasciandoli fare, andavano avanti bene e mi risparmiano molto lavoro. I valori di questo movimento sono: il protagonismo dei laici e la missionarietà di ogni credente. Il loro entusiasmo attira non pochi protestanti alla Chiesa”.
Padre Gheddo su “Il Timone” (2007)
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