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C’è tutto questo, e molto di più, nel nuovo libro di padre Piero Gheddo, «decano» dei missionari giornalisti d’Italia, per 40 anni direttore del mensile Mondo e Missione, fondatore dell’agenzia stampa AsiaNews, oggi diretta da padre Bernardo Cervellera. Il suo libro Inviato speciale ai confini della fede. La mia vita di missionario giornalista(Editrice missionaria italiana, pp. 224, euro 14, prefazione di Andrea Tornielli) è in libreria da questa settimana.
Un testo ricco di storie, avventure e aneddoti inedit. Come la decisione dei superiori del Pime di espellere il giovane Gheddo dal suo istituto religioso perché – da seminarista – andò ad acquistare la carta necessaria per stampare un giornalino missionario senza permesso. Oppure, vicenda molto più eclatante, la «censura» dell’Osservatore romano a due interviste realizzate da Gheddo durante il Concilio Vaticano II (padre Piero seguì l’assise conciliare per conto del quotidiano della Santa Sede): per intervento della Segreteria di Stato non vennero pubblicate il colloquio con il cardinale Agostino Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, e quello con il vescovo brasiliano Hélder Câmara, presule di Recife, paladino dei poveri in terra latinoamericana.
Nel suo libro – realizzato su richiesta della Direzione generale del Pime e scritto insieme al giornalista Gerolamo Fazzini – Gheddo riporta anche racconti autobiografici molto personali, come quella volta che in India, nel 1978 scampò fortunosamente ad un attentato aereo di un gruppo estremista induista che costò la vita a centinaia di persone.
Un testo prezioso, innanzitutto per chi conosce già padre Gheddo, per averlo incontrato o aver letto uno dei suoi numerosi libri, perché permette di ripercorrere un’avventura umana, missionaria e giornalistica unica: «Quella di padre Piero Gheddo è una grande storia italiana, prima ancora che cristiana» scrive Andrea Tornielli nella prefazione. La sua forza è stata per tutta la vita e continua a essere la disponibilità a lasciarsi ferire, mettere in discussione dalla realtà».
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Dal capitolo “Le mie crisi di uomo e di prete” pubblichiamo la parte finale, dal titolo “Cosa mi aiutato nel mio cammino di fede”
Tre i fattori che mi hanno aiutato. Il primo: il Capitolo di aggiornamento post-conciliare del Pime (maggio 1971-gennaio 1972) a Roma nella casa generalizia. Mi ha fatto bene studiare per la prima volta la storia dell’istituto e i suoi personaggi, martiri e santi: ho scoperto che il Pime è davvero un bell’istituto, con una grande tradizione di santità e di passione per la Chiesa e la missione.
Anche monsignor Pirovano[1] è stato decisivo. Pregava tanto e a me diceva, che come giornalista con una vita molto distratta, dovevo essere fedele alle pratiche di pietà del sacerdote. Quando sono andato a salutarlo all’ospedale Valduce di Como, poco prima della sua morte mentre stavo partendo per la Guinea-Bissau, abbiamo recitato assieme il Rosario e poi mi ha detto di recitare tre Rosari al giorno. Nella sue lettere, scriveva spesso: «Missionari siate voi stessi, missionari di Cristo e nient’altro». L’Istituto ancora lo ringrazia, perché ha saputo realizzare le «vie nuove» nello spirito missionario autentico, che abbiamo ereditato dalla nostra storia secolare. Su un punto Pirovano non transigeva: l’amore e la fedeltà al Papa. Il discorso ai missionari partenti del 22 settembre 1968 è tutto impostato su questo tema.[2]
Oggi nella Chiesa, scriveva citando Paolo VI, «si sta infiltrando uno spirito di critica corrosiva, un acido spirito di critica negativa e abituale…La roccia su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa è Pietro, il Papa, l’unico parametro a cui tutto riferire: idee, dottrine, teorie, movimenti, tendenze, progetti, per verificare la loro ortodossia e la loro capacità di salvezza e di produzione di grazia».
Nella mia crisi di giovane sacerdote mi ha aiutato anche la comunità del Centro missionario Pime di Milano (in via Mosè Bianchi), iniziata nel novembre 1973, Discutevamo e ci confrontavamo con le teorie e le prassi correnti sul sacerdozio, la preghiera, la contestazione e l’obbedienza alla Chiesa: con grande gioia vedevo che i miei confratelli, con varie sensibilità e accenti, erano d’accordo con la visione di Pirovano. E poi i due confessori e padri spirituali che mi seguivano: prima padre Attilio Villa (già missionario in Cina) e poi padre Franco Vernocchi (in Guinea Bissau). Personaggi decisamente conservatori nella vita spirituale (e anche nel resto), ma io avevo bisogno di quel richiamo, per non venir travolto dall’ondata delle «vie nuove», che nella stessa Chiesa italiana erano spesso fallimentari, anche se la stampa le esaltava; mentre le «vie nuove» realizzate con la preghiera e la fedeltà alla Chiesa non facevano notizia.
Mi hanno aiutato molto anche le Adoratrici del SS. Sacramento di Seregno e la Madre Maria Immacolata, donna di grande spiritualità, intelligenza e cordialità,come ho già ricordato nel Capitolo XIII sulle suore di clausura.
Più tardi il Signore Gesù mi ha mandato altre occasioni e maestri. Sul mio cammino di fede hanno influito molto i missionari di cui ho dovuto scrivere la biografia: il beato martire Giovanni Mazzucconi, in occasione della sua beatificazione (19 febbraio 1984), i servi di Dio Marcello Candia (oggi venerabile), Clemente Vismara (oggi beato), Felice Tantardini, Paolo Manna (oggi beato), Carlo Salerio, Alfredo Cremonesi e altri di cui non s’è ancora iniziata la causa di canonizzazione.
Ho scritto 18 biografie di missionari, non solo del Pime.[3] Qui ricordo brevemente quattro di questi missionari, che ho conosciuto personalmente e mi hanno aiutato a crescere spiritualmente, hanno incarnato per me le virtù dei missionari: il beato padre Clemente Vismara, il servo di Dio fratel Felice Tantardini, padre Augusto Gianola e padre Leopoldo Pastori.
Clemente Vismara (1897-1988) ha infiammato i miei anni giovanili con i suoi racconti di vita missionaria; poi sono andato a trovarlo in Birmania, sono stato il postulatore della sua Causa di Beatificazione. Per me incarna la virtù dell’obbedienza. Quando, come ho ricordato, nel 1993 il superiore generale padre Franco Cagnasso mi chiama a Roma per dare vita all’Ufficio storico del Pime, ho avuto una forte reazione contraria; l’amico Giorgio Torelli e altri giornalisti hanno passato la notizia alle agenzie, provocando proteste su vari giornali, compreso il Corriere della Sera. In quel tempo stavo preparando la causa di beatificazione di Clemente Vismara e mi viene tra le mani una sua lettera al grade amico e benefattore Pietro Migone. Il vescovo l’aveva tolto da Monglin, dove «in 32 anni avevo messo in piedi una mezza città», per mandarlo a Mongping (a 225 chilometri di distanza), dove a 60 e più anni partiva quasi da zero. Clemente scrive: «Il mio cuore vacilla, ma ho obbedito perché sono persuasissimo che se io facessi qualcosa di testa mia certamente sbaglierei e mi andrebbe male».[4] Lo Spirito Santo ha messo quella lettera sotto i miei occhi, ho visto che era la mia stessa situazione. Ho obbedito anch’io ed è stata la mia salvezza.
Il servo di Dio fratel Felice Tantardini (1898-1991) era un fabbro, aveva fatto solo la terza elementare, poi era andato a lavorare Entrato nel Pime dopo la prima guerra mondiale (prigioniero in Austria) è partito quasi subito per la Birmania. A me ha insegnato il valore dell’umiltà e, come giornalista, ne avevo davvero bisogno. I giornalisti peccano spesso di superbia e io avevo (e ho ancora) questo vizio di chi acquista una certa fama scrivendo. Anche perché, come diceva Mac Luhan, il profeta dei giornalisti, «il mezzo è il messaggio» e i giornalisti si mettono volentieri in vista, pensando di dare chissà quale messaggio. Felice era tutto il contrario. Era un gran lavoratore, si autodefiniva «il servo dei preti e delle suore», faceva di tutto: falegname, ortolano, muratore, cuoco e via dicendo. Lavorava molto, ma anche pregava molto. Tutti erano innamorati del missionario Felice, cristiani e non cristiani. I vescovi lo chiamavano in altre diocesi, era diventato una bandiera del cristianesimo in un Paese pagano. Tornò l’unica volta in Italia nel 1956 per fortissimi dolori alle gambe. Temeva di perderle e scrisse al suo vescovo mons. Alfredo Lanfranconi che forse non sarebbe potuto tornare in Birmania, perché privato delle gambe. Il vescovo risponde: «Con le gambe o senza gambe torna assolutamente in missione».
Padre Augusto Gianola (1930-1990) mi ha insegnato lo spirito di sacrificio, di mortificazione. Missionario in Amazzonia, era tutto di Dio e tutto per i suoi «caboclos», che aiutava con iniziative per impedire che emigrassero nelle baraccopoli di Manaus. Ma voleva anche imitare gli antichi padri del deserto, che vivevano isolati dal mondo. Si ritira, per mesi e anche per anni, in un suo «monastero» in foresta, a tre giorni di cammino dal villaggio dei caboclos: pescava, coltivava la terra e andava a caccia con un fucile portato dall’Italia. Si sottoponeva a terrificanti penitenze, perdeva 30 chili per i digiuni e recitava sette Rosari al giorno. Questa sua ricerca dura tutta la vita. A Roma, una sera d’estate 1980, sul Gianicolo e davanti a un bel gelato Augusto mi chiede: «Ma insomma, Piero, tu cerchi Dio? Tu aspiri alla santità? Che immagine ti fai di Dio? Quali sono i tuoi rapporti con Gesù e con la Madonna?». Gli ultimi anni della sua vita li trascorre in foresta (settembre 1986-agosto 1989). Si immerge sempre più nella preghiera, nelle mortificazioni e nei digiuni. Due i sentimenti in questa estrema ricerca di Dio: la coscienza della propria piccolezza e la certezza di aver pregato e cercato Dio con tutte le forze. Nella primavera 1989, padre Augusto va a Parintins e gli confermano che ha contratto la lebbra. Scrive ai compaesani di Laorca pochi mesi dopo: «Quando i medici mi hanno detto che ho la lebbra. il mio cuore ha provato una felicità mai provata. Come è buono il nostro Dio! Così incomincio un’altra avventura, la più bella di tutte… Non mi spiacerebbe finire la mia vita in un lebbrosario, assieme ai più poveri e disprezzati dal mondo».
La biografia di Augusto è un formidabile messaggio di Vangelo per i giovani d’oggi.[5] Perché Augusto è un giovane di spirito, moderno, avventuroso, insofferente di regole e di pastoie burocratiche, amante della natura, poeta, sognatore, scrittore geniale ed efficace. Ha tutte le qualità per piacere ai giovani di età e di spirito. E trasmette con tutta la sua vita questo messaggio: solo Dio conta, il resto, in fondo, passa presto e non vale niente; ha valore solo se è orientato a Dio, se è vissuto per Lui.
Padre Leopoldo Pastori (1939-1996), missionario in Guinea-Bissau, è stato un «contemplativo in azione» (Redemptoris Missio, n. 91). Nasce a Lodi da famiglia povera con quattro figli. Orfano di padre a quattro anni, la mamma faceva la lavandaia, Leopoldo è accolto nell’orfanotrofio di Lodi, studia e lavora. A 18 anni viene al Pime, è sacerdote a 30 nel 1969. Contrae l’epatite virale quando passa una vacanza di seminari in Guinea Bissau. E’ curato e sta benino, nel 1974 parte per la Guinea Bissau, va a Bafatá e con i giovani crea iniziative sportive, musicali, di formazione cristiana, trasmette la fede e tanti lo cercano. Torna in Italia per l’epatite, è padre spirituale nel seminario del Pime a Monza, nel 1990 sta meglio e riparte per la Guinea.
Gli ultimi sei anni di vita li passa al Centro di spiritualità di Ndame, fondato da lui con p. Mario Faccioli: lo hanno voluto fortemente per «dare un’anima» alla missione in Guinea, che correva il rischio di essere sbilanciata sulle opere sociali ed educative. A Ndame Leopoldo si dedica alla preghiera, alla direzione spirituale, alla carità nei villaggi che visitava. Buono con tutti, paziente, uomo di pace capace di sopportare le offese, dava tutto quanto riceveva dall’Italia. E poi passava lunghe ore davanti a Gesù Eucaristico. Muore all’ospedale di Piacenza il 26 maggio 1996. Nel 1997 sono stato in Guinea e il vescovo francescano mons. Ferrazzetta mi dice: «Scrivi la biografia di padre Leopoldo, raccogli le testimonianze su di lui, molti lo ricordano come un santo. Tradurremo la biografia in criolo e avrà un grande valore di formazione cristiana». Suor Rachele Recalcati, Superiora delle Missionarie dell’Immacolata in Guinea: «È stato una stella filante nel cielo della Guinea Bissau. Il Signore ce l’ha dato per troppo poco tempo. Era un uomo di Dio, ha fatto innamorare di sé i giovani e tutta la gente. Da tempo si capiva che non stava bene. L’ultima volta che l’ho visto era tutto giallo e voleva ancora ritardare la partenza». Il suo parroco a Lodi, don Giancarlo Marchesi, mi diceva: «La sua vita è stata un martirio dall’inizio alla fine. Lo chiamavano da tutte le parti, ma doveva limitarsi perché sentiva che, altrimenti, andava incontro alla morte! Una situazione tremenda e non sempre era capito dagli altri».
Leopoldo Pastori rappresenta un santo atipico nelle missioni d’Africa, ma molto attuale e profetico per il futuro della Chiesa nel continente nero: non un monaco nel monastero, ma un missionario ammalato, che non torna in patria, ma rimane tra il suo popolo dando testimonianza della vita Cristo. I preti locali annunziano Cristo con la parola, lui è il missionario che, come Gesù in Croce, soffre e prega per tutti.
[1] Superiore generale del Pime per due volte (1965-1977); sta iniziando la sua causa di beatificazione.
[2] Si veda: Il Vincolo (bollettino interno del Pime), dicembre 1968, pagg. 38-39.
[3] Tra questi Marcello Candia, mons. Marcello Zago, l’avvocato Davide Sipione, «il cancelliere dei lebbrosi».
[4] P. Gheddo, Fare felici gli infelici Prefazione di Roberto Beretta, Emi, Bologna 2014, pag.129. La lettera di Vismara è del 28 gennaio 1956.
[5] P. Gheddo, Dio viene sul fiume. Augusto Gianola, missionario in Amazzonia. Una tormentata ricerca di santità, con prefazione di Enzo Biagi, Emi, Bologna 1995. Si veda anche G. Fazzini (a cura di), La più bella delle avventure, Teka Edizioni, Lecco 2015, con prefazione del card. Angelo Scola.
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