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Quando ero nel seminario minore della diocesi di Vercelli (14-15 anni) mi sono innamorato di Clemente leggendo I.M. (Italia Missionaria), non solo per le avventure che raccontava in modo così poetico, ma per la gioia che esprimeva di essere prete e missionario. Quando sono poi entrato nel Pime, ho constatato che questa è un po’ la caratteristica della nostra tradizione di missionari (e anche di altri istituti), che ritrovo in molti confratelli scrivendo la storia delle nostre missioni. Recentemente ho pubblicato dalla EMI “Missione Birmania – I 140 anni del Pime in Myanmar (1867-2007)”, che vi consiglio: è un’epopea della vita missionaria. Quanti personaggi che starebbero a pari di Vismara, se avessero scritto le loro vicende: Tornatore, Biffi, Ravasi, Bonetta, Guercilena, Sagrada, Gobbato, Cesare Colombo, Rocco Perego e l’elenco potrebbe essere lungo!
Clemente era contento di essere prete e missionario: da questa gioia che trasmetteva con i suoi scritti sono nate molte vocazioni sacerdotali e religiose. Visitando le missioni non solo del Pime ho trovato missionari e suore che mi hanno detto: la mia vocazione è nata leggendo le lettere di Clemente (ricordo un saveriano in Indonesia, una comboniana in Mozambico, oltre a molti del Pime). Padre Rizieri Badiali, missionario a Monglin con Vismara negli anni cinquanta, ha testimoniato al processo diocesano della sua causa di beatificazione (“Positio”, pag. 440): “(La fede di padre Clemente) era una fede entusiasta, gioiosa, piena del desiderio di salvare le anime… una fede biblica, che è quella di chi confronta le sue scelte e le sue azioni con la volontà di Dio. Questa fu la fede di padre Vismara, che lo sostenne per tutta la vita fino alla morte, con una grande allegria, una grande voglia di vivere che sentiva per sé e per i ragazzi che accoglieva appena poteva….Posso testimoniare che padre Clemente pregava e pregava molto. Diceva: ‘Se non ci fosse la preghiera. come farei ad essere sempre allegro?’”.
Un prete birmano ha testimoniato (“Positio”, pag. 442): “Padre Vismara era sempre in preghiera, così come era un uomo sempre impegnato. Io non l’ho mai visto in ozio, anche quando fu molto anziano: o era in mezzo ai ragazzi a scuola o era in mezzo ai poveri o era in chiesa a pregare: pregava da solo in chiesa e con tutta la gente, aveva sempre in mano il rosario, un grande rosario di legno. Celebrava Messa in modo pacato, semplice, raccolto e devoto”. Perché Clemente era sempre contento e diffondeva attorno a sé non il pessimismo ma l’ottimismo? Per questo motivo: essendo sempre unito a Dio, sentendo Dio presente nella sua vita non poteva addolorarsi o scoraggiarsi. Certo si arrabbiava anche lui, sentiva il peso delle sue responsabilità (manteneva 250 orfani e orfane, 300 persone comprese suore, vedove, sciancati, lebbrosi), l’isolamento e i mali fisici che lo facevano soffrire. Ma tutto questo non l’ha mai indurito: “E’ morto a 91 senza invecchiare” dicevano i suoi confratelli.
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In una lettera di Clemente ad un amico italiano si legge (“Positio”, pag. 444): “La vita è bella solo se la si dona, se la si logora nel fare del bene. Non è che tutto il resto sia insignificante, ma insomma, non è il centro del nostro vivere, non appaga. Fare la volontà di Dio è cooperare al nostro bene, quaggiù e lassù”.
Nel nostro tempo arido e secolarizzato, credo che la testimonianza della gioia cristiana, che viene dalla fede, sia fondamentale in un prete, in una religiosa, in un cristiano. Paolo VI nella famosa e preziosa “Lettera apostolica” intitolata “La gioia cristiana” (1975) ha espresso questo concetto: il cristiano che prega e vuol bene a Dio non può diventare triste; la gioia è la miglior testimonianza che tutti i battezzati possono dare della loro fede.
p. Piero Gheddo (Bollettino di P.Clemente – marzo 2007)
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