Conferenza al convegno diocesano sulla Pacem in Terris Centro culturale Rosetum, Milano, 20-IX-2003
Sono stato invitato a dare una testimonianza scritta sul tema della pace, dato che vorrei essere presente al vostro Convegno sulla “Pacem in Terris”, ma ne sono impedito da un precedente impegno. Da cinquant’anni sacerdote e missionario del Pime, ho visitato le missioni in ogni continente in 70-80 paesi, vivendo dal di dentro, dopo la II guerra mondiale, una ventina di guerre: Vietnam, Cambogia, Filippine, Birmania, Sri Lanka, Indonesia, Salvador, Nicaragua, Perù, Colombia, Angola, Mozambico, Uganda, Ruanda, Burundi, Congo, Namibia, Zimbabwe, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad… e certo ne dimentico qualcuna.
Quante immagini tragiche mi passano per la mente, quante violenze, quanti morti! Un solo ricordo. Nel giugno 1975 a Luanda, capitale dell’Angola: i portoghesi stanno abbandonando il paese per concedere l’indipendenza, i tre movimenti di liberazione nazionale non si sono messi d’accordo e iniziano a combattersi per il potere. La guerra è in tutto il territorio e anche in città: sparatorie continue, quartieri che bruciano, profughi ovunque. Un missionario cappuccino italiano mi porta a vedere l’incineritore dell’ospedale cattolico, che lavora a pieno ritmo per bruciare i cadaveri raccolti lungo le strade: due camion arrivano, alzano la piattaforma del cassone di trasporto e scaricano nella gola della grande macchina mucchi di cadaveri straziati, sanguinolenti… Un fetore insopportabile di carne bruciata grava su tutto il quartiere!
LA PEGGIOR CALAMITA’ PER UN POPOLO E’ LA GUERRA
La differenza fra un paese in pace e uno in guerra è abissale.
UN AIUTO PER LE MISSIONI: il tuo 5 per 1000 può fare molto per gli ultimi, per chi e' sfruttato, per difendere la vita sul tuo 730, modello Unico, scrivi 97610280014
Ho toccato spesso con mano la verità di quanto diceva Pio XII: “Con la pace tutto è salvato, con la guerra tutto è perduto”. Il perché è facile da capire: la guerra scatena ogni tipo di violenza, è veramente la distruzione totale dell’uomo e del senso di umanità. Ricordiamo il grido di Paolo VI all’ONU nel 1966: “Mai più la guerra!”, ripreso con forza da Giovanni Paolo II in diverse circostanze, anche in occasione della recente guerra in Iraq (marzo-aprile 2003).
Nel 1986 in Eritrea l’arcivescovo di Asmara Zacharias Johannes diceva: “Dopo venti e più anni di guerra, i nostri ragazzi non sanno fare nient’altro che sparare, uccidere, rubare, violentare. Quando verrà la pace non sarà facile cambiare queste abitudini e questa cultura”.
Nel 1990 in Sri Lanka un teologo cattolico singalese confessava: “La guerra ha portato il nostro popolo ad un odio così profondo fra tamil e singalesi, che nell’ultimo incontro nazionale della SLAT (Associazione dei Teologi di Sri Lanka), al termine dei tre giorni ci siamo sentiti in dovere di fare un atto pubblico di riconciliazione, perché non riuscivamo nemmeno più a parlare tra noi preti cattolici, tamil e singalesi”.
Nel 1994 in Burundi un catechista “tutsi” si sfogava con me piangendo: “Nel nostro paese si combatte, pur con brevi pause, da quarant’anni, questo ha portato a un tale odio e abitudine alla violenza, che oggi, nei villaggi, la paura dell’altro è così forte da arrivare al punto di uccidere per primi, per timore di essere uccisi”.
In Birmania, nel febbraio 2002, l’arcivescovo di Taunggyi, mons. Matthias U Shwe, mi racconta quello che i turisti occidentali non vedono, visitando solo le cinque-sei località aperte e con guide locali: “Il nostro paese è praticamente in guerra dal 1948. Si potrebbe giungere alla pace, ma manca la buona volontà di molti. Si continua a distruggere ed a morire: possibile che il mondo intero ignori la nostra guerra e nessuno intervenga?”.
Dopo il crollo del Muro di Berlino (1989) e del “sistema socialista” (su 30 regimi di “socialismo reale” ne sopravvivono sei), molti si erano illusi che fosse venuto il momento della pace universale: si parlava addirittura di “fine della storia”. Ma la storia ci avverte che dal 1945 ad oggi si sono verificate da 150 a 160 guerre fra grandi e piccole e dal 1989 al 1999 sono state o sono ancora attive una quarantina di guerre; oggi una trentina quelle in atto, civili o internazionali (circa venti in Africa), di cui spesso non abbiamo nemmeno notizia. Nel marzo 1997, in Guinea Bissau, padre Giuseppe Fumagalli, missionario di Brugherio (Milano) che viveva da 29 anni ai confini col Senegal, mi diceva che in Casamance (sud del Senegal) c’è una guerra feroce di cui la stampa italiana non ha mai informato: la forte tribù dei Djola (animisti e cristiani) combatte per la secessione dal Senegal dominato da etnie del nord, islamizzate. I morti sono decine, centinaia, i profughi in Guinea Bissau e in Gambia migliaia.
LA PACE NASCE DAL RISPETTO DEI DIRITTI DELL’UOMO
Perchè la guerra continua, nonostante le molte manifestazioni dei popoli in favore della pace? Rispondo secondo la mia personale esperienza:
1) La pace fiorisce solo dove c’è la democrazia e il rispetto dei diritti dell’uomo. Fra Nord e Sud del mondo c’è un abisso storico-culturale-politico-economico. Il Nord ha realizzato (sia pur in modo ancora imperfetto) l’educazione popolare, la democrazia, lo sviluppo, la giustizia, il benessere, la pace. Nel Sud del mondo stanno formandosi le nazioni come in Europa negli ultimi mille anni, con masse popolari ancora dominate dal nazionalismo e facile preda di dittatori e di ideologie violente. Il Sud è in una fase evolutiva incerta, manca di stabilità politica e di educazione popolare: spesso offre ai suoi cittadini condizioni di vita disumane, che facilmente suscitano reazioni di violenza.
2) Nel mondo evoluto, in cui è maturata l’educazione dell’uomo alla democrazia e i bisogni di base dell’uomo sono soddisfatti, i pericoli di guerra sono quasi nulli: impensabile un conflitto armato fra Stati Uniti e Canadà, pur con 4.000 km. di frontiera comune; nell’Europa comunitaria, in passato teatro di centinaia di guerre, si sono fatti passi avanti per regolare i contrasti fra stato e stato. La guerra invece infuria, e i pericoli di nuovi conflitti sono molto concreti, in quelle parti del mondo i cui popoli ancora sono schiavi di flagelli che noi abbiamo superato: analfabetismo, fame, pestilenze, sottosviluppo, nazionalismo esasperato, dittature, culture e religioni non integrate nel mondo moderno, ecc.
3) Il Sud del mondo, principalmente a motivo dell’instabilità politica e della mancanza di educazione e di democrazia, non ha ancora creato strutture e capacità di sviluppo. Questo vale soprattutto per l’Africa nera, oggi il continente più povero e arretrato. Gli africani non producono abbastanza per nutrire la popolazione in aumento: nella provincia di Vercelli un ettaro di terra rende 75 quintali di riso, nell’agricoltura tradizionale africana (non quindi nelle poche fattorie moderne spesso realizzate da stranieri o dalle missioni) 4-5 quintali; le vacche della pianura padana producono 30 litri di latte al giorno, le vacche africane non producono latte, eccetto uno o due litri quando hanno il vitello; gli impianti industriali italiani producono in media all’85-90% delle potenzialità, nell’Africa nera solo al 30-35%…
4) La nostra però è una civiltà materialista, che insegue il superfluo, favorisce l’egoismo dell’uomo e allontana Dio dall’orizzonte della società: una civiltà senz’anima. Lo scontro fra modello di sviluppo del Nord e culture-religioni tradizionali del Sud è la radice di non poche guerre: si pensi all'”integralismo islamico”, che è il rifiuto (impotente e violento) di un “modello di sviluppo” come il nostro, distruttore della fede e identità religiosa. Non si può ridurre l’abisso fra Nord e Sud solo ad un problema economico-commerciale-politico: molto più grave è il contrasto culturale, il non rispetto delle culture e della fede religiosa, anima dei popoli.
GLI ERRORI DEL “PACIFISMO” CATTOLICO
Oggi siamo giunti ad una coscienza più profonda del legame che esiste fra il rispetto dei diritti dell’uomo e la pace, e fra la violazione dei diritti dell’uomo e la guerra. Giovanni Paolo II scrive nella “Redemptor Hominis” (1979): “La pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sè violazioni ancora più gravi di questi diritti. Il problema dei diritti dell’uomo è alla base della pace sociale e internazionale”.
Non possiamo ridurre il discorso sulla pace ad un basso livello. Bisogna volare alto. La pace è un concetto globale, non può essere ridotto a temi parziali. Mons. Antonio Riboldi ha detto che il “pacifismo” cattolico “mira quasi solo al disarmo. Ma noi sappiamo – continua mons. Riboldi – che Giovanni XXIII aveva fissato nella “Pacem in Terris” i quattro pilastri per una vera pace, che ha una dimensione molto più ampia del disarmo: Verità, Libertà, Giustizia e Amore. Se noi cristiani ci battiamo per il semplice disarmo, facciamo del disarmo un assoluto, seguiamo una teoria superata. In realtà la pace non è solo abolire le armi, ma è abolire la guerra, tutte le guerre, anche quelle contro la libertà, contro la giustizia, contro la verità e contro l’amore” (Intervista a Piero Gheddo, nel volume “Possiamo ancora dirci cristani?”, Paoline 1992, pag. 100).
L’errore del “pacifismo” cattolico è di volare basso; di proporsi mete parziali, assolutizzando aspetti senza dubbio veri, autentici, ma parziali; di strumentalizzare il grande ideale della pace a fini politici. Ad esempio:
a) riduzione delle armi su cui si è discusso e protestato per anni (tema giusto, ma parziale). Eppure, da quando è caduto il muro di Berlino e sono scomparsi i due blocchi di potenze, si sta procedendo alla radicale riduzione della armi atomiche e dei missili e si sono fatti passi avanti in questa direzione, impensabili vent’anni fa nonostante tutte le proteste! L'”equilibrio del terrore” non era più necessario; ma non per questo i pericoli di guerre sono diminuiti;
b) lotta contro il commercio delle armi. Anche questo è un tema giusto ma non facciamone un assoluto: i massacri del Ruanda e Burundi sono stati compiuti col machete, con bastoni, col fuoco. Oggi in Africa il maggior fornitore di armi alle varie fazioni è il Sud Africa, quasi sempre chiamato come mediatore di pace tra le fazioni etniche. L’Italia ha diminuito la sua produzione ed esportazione di armi (siamo passati dal VII° al XII° posto fra i produttori di armi nel mondo), ma con questo non si aboliscono le guerre;
c) altro errore è di politicizzare l’azione per la pace: lotta contro le dittature di destra ma non contro quelle di sinistra, protesta per le guerre dell’Occidente (soprattutto americane) e non per quelle dei paesi comunisti, come Cuba che ha mandato militari a combattere in 14 paesi africani: piccola com’è, Cuba ha il maggior esercito dell’America Latina, ma nessuno ha mai protestato;
d) distinguere fra violenza buona e violenza cattiva, approvando le guerriglie di liberazione: ad esempio, il terrorismo dell’Anc (African National Congress) in Sud Africa per i pacifisti cattolici andava bene, come le guerriglie nelle ex-colonie portoghesi, la “guerra di liberazione” del Vietnam del nord contro il Vietnam del sud (paesi riconosciuti internazionalmente come le due Germanie e le due Coree), ecc.
e) Il pacifismo di non pochi cattolici e associazioni o gruppi di credenti non aggancia il dono della pace a Dio e a Cristo, come avviene in tutta la tradizione cristiana: questo è un limite che porta fuori strada. Alcuni dicono: “Non importa la fede, basta amare l’uomo”. No, non basta: tutti dicono di amare l’uomo, come Pol Pot che diceva di agire per il bene dei cambogiani!
“CRISTO E’ LA NOSTRA PACE”
La pace non è solo assenza di armi‚ di guerra combattuta. Isaia definisce la pace come “opera della giustizia” (Opus iustitiae pax, Is. 32, 7), ma la “giustizia” intesa nel senso biblico: non solo “dare a ciascuno il suo”, sebbene rispettare l’ordine di Dio, la giustizia di Dio, che ha fatto tutte le cose bene e in modo giusto.
La parola biblica di pace “Shalom” è l’armonia completa tra l’uomo e Dio e all’interno della comunità che, sulla base dell’ordine voluto da Dio, è benedetta da Dio e permette all’uomo di svilupparsi in ogni senso, senza incontrare ostacoli. Nella concezione dell’Antico Testamento, lo “Shalom” non era assenza di guerra, ma armonia nei rapporti fra il popolo eletto e Dio e fraternità fra il popolo eletto. Solo più tardi, con la predicazione dei Profeti, la pace significa anche l’opposto della guerra.
Pace quindi è fedeltà del popolo a Dio, all’Alleanza con Dio, rispetto della Legge di Dio, i Dieci Comandamenti, l’ordine delle cose voluto da Dio. La “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II dice al n. 78 che la pace è “il frutto dell’ordine impresso nell’umana società dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini. La pace non è mai stabilmente raggiunta, ma è da costruirsi continuamente”.
Interessante questo concetto: la pace come frutto dell’ordine e della Legge di Dio, da costruirsi giorno per giorno. Non è raggiungibile una volta per sempre poiché, dice ancora la Gaudium et Spes, “la volontà umana è labile e ferita dal peccato, l’acquisto della pace esige il costante dominio delle passioni di ognuno e la vigilanza della legittima autorità”.
Ecco il concetto biblico della pace:
1) a) Legge di Dio e ordine stabilito da Dio da rispettare, minacciato dal peccato dell’uomo;
b) costante dominio delle passioni e bene pubblico assicurato dalla legittima autorità.
2) Il Vangelo aggiunge un altro concetto: la pace dono di Dio. L’annunzio della pace viene dall’alto:
a) a Betlemme gli angeli cantano “gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” (Luca 2, 14);
b) Gesù risorto promette la pace ai suoi fedeli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace: non come la dà il mondo, io la do a voi” (Giov. 14, 27). “La pace sia con voi!” (Giov. 20, 19).
3) “Cristo è la nostra pace” (Ef. 2, 14). Per il cristiano la pace ha un nome, un modello e una forza: Gesù Cristo, unico Salvatore dell’umanità, che porta all’uomo i doni messianici appunto della pace, della giustizia, della fraternità. La pace non è la semplice assenza della guerra: essa ha un valore religioso, è la situazione voluta da Dio per l’uomo, il progetto di Dio per il genere umano. “E la pace, che è dono di Cristo, sia sempre nel vostro cuore” (Col. 3, 15).
Ecco l’importanza della preghiera e della conversione personale: il contributo più grande che possiamo dare alla pace sul piano strettamente personale è la conversione a Cristo: essere uomini di pace come era Gesù. Tutto per il credente deve essere stimolo alla conversione.
LA PACE E’ RESPONSABILITA’ DI TUTTI E DI CIASCUNO
Di fronte al panorama che presenta il mondo d’oggi nessuno può dire: non mi riguarda, ci pensino i governi, ci pensi l’ONU… Siamo tutti provocati come cristiani e come cittadini di un paese ricco ed evoluto. Quando abbiamo la tentazione di lamentarci di quello che ci manca, delle croci che portiamo, voltiamoci indietro e guardiamo ai milioni e miliardi di uomini e donne, con gli stessi nostri diritti di creature umane, che hanno ricevuto molto meno di noi dalla vita.
1) I messaggi che il Papa pubblica il 1° gennaio di ogni anno per la Giornata mondiale della pace sono sempre un forte richiamo alla responsabilità personale. Il messaggio del 1998 illustra bene il concetto: “Dalla giustizia di ciascuno nasce la pace per tutti”.
Dio vuole la pace, non la guerra. Nel messaggio per la pace del 1998, Giovanni Paolo II scrive che la nostra vocazione di uomini è di essere “una sola famiglia”: “Ci sarà pace nella misura in cui tutta l’umanità saprà riscoprire la sua originaria vocazione ad essere un’unica famiglia, in cui la dignità e i diritti delle persone – di qualunque stato, razza, religione – siano affermati come anteriori e preminenti a qualsiasi differenziazione e specificazione. Di tale consapevolezza può ricevere anima, senso e orientamento l’attuale contesto mondiale contrassegnato dai dinamismi della globalizzazione. In tali processi pur non privi di rischi, sono presenti straordinarie e promettenti opportunità, proprio in vista della meta di fare dell’umanità una sola famiglia, fondata sui valori della giustizia, dell’equità e della solidarietà”.
2) La pace quindi va costruita nella solidarietà. Cosa vuol dire? Scrive il Papa: “Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c’è vera pace se ad essa non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al fallimento qualsiasi progetto che tenga separati dei diritti indivisibili e interdipendenti: quello della pace e quello allo sviluppo integrale e solidale”.
Cosa fare? La prima risposta che ci viene in mente è quella economica: noi siamo ricchi, loro sono poveri, aiutiamoli economicamente. Giusto. Da qui viene la campagna per il condono del debito estero. Problema gravissimo: ci sono paesi, come quelli africani, il cui debito verso l’esterno è due o tre volte il prodotto nazionale lordo. Non lo pagheranno mai, si svenano per pagare gli interessi! Nei rapporti fra Nord e Sud del mondo ci sono molte ingiustizie come questa, che non dipendono tanto dalla cattiva volontà di governi e governanti, di banche e di banchieri, ma dal fatto che i rapporti economico-commerciali fra i popoli sono impostati secondo norme che favoriscono l’egoismo dei ricchi, cioè il nostro egoismo. Per cambiare certe strutture occorre che cambi il nostro modello di vita!
Perdonare il debito è indispensabile, ma non basta. Se l’Africa e i paesi poveri non riescono a cambiare la loro politica, i loro regimi, a sconfiggere la corruzione e la guerra, nessun aiuto materiale riuscirà a farli progredire. I popoli poveri non producono abbastanza, non sono ancora entrati nel mondo moderno: vivono a cavallo fra preistoria e storia. I soldi non bastano, ci vuole un’educazione vicendevole.
3) I popoli hanno bisogno di una rivoluzione religiosa e culturale, prima che di soldi e macchine. Hanno bisogno di Gesù Cristo e del Vangelo. Mons. José Camnate, vescovo di Bissau, capitale della Guinea Bissau, paese poverissimo distrutto dalla guerra civile del 1998, alla domanda: “Cosa possono fare i paesi europei per la Guinea Bissau?” ha dichiarato all’agenzia Fides (31 gennaio 1999):
“Molti pensano alle cose materiali, perchè i bisogni sono tanti. Ma io chiedo alle Chiese sorelle d’Europa di tornare alle loro radici evangeliche per comunicare alla Guinea Bissau, come al resto dell’Africa, il soffio dello spirito cristiano. Così anche gli aiuti materiali avranno un senso e ci aiuteranno a crescere. Altrimenti, con gli aiuti materiali, ma senza il sostegno spirituale, l’Africa rischia di perdere la sua anima”.
Padre Giovanni De Franceschi, missionario del Pime in Costa d’Avorio dal 1973, scrive: “Dopo 25 anni d’Africa mi sono fatto una convinzione profonda: secondo la mia esperienza, i più grande contributo che noi missionari portiamo allo sviluppo dell’Africa non sono gli aiuti economici o le scuole o gli ospedali (tutte cose indispensabili!), ma la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo”. La religione africana è la religione della paura: il terrore del Dio ignoto che non si è manifestato, e degli spiriti cattivi che dominano tutta la vita dell’uomo, blocca lo sviluppo, l’educazione, la libertà delle persone.
4) Il primo contributo alla pace è il Vangelo
Nella “Sollicitudo rei socialis” (n. 41) il Papa scrive: “Quando la Chiesa adempie la sua missione di evangelizzare, essa dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo”.
Il Vangelo apre il cuore e le menti, porta lo sviluppo anche economico e lo spirito di perdono e di pace. In Guinea Bissau, piccolo paese dell’Africa occidentale, i missionari del Pime lavorano dal 1947. Nella tribù dei felupe (nord ovest del paese), i missionari sono presenti dal 1952 quando i felupe vivevano ancora secondo la loro tradizione: la quale ha anche dei valori religiosi e morali, ma, ignorando il perdono delle offese, aveva creato una situazione di guerra continua fra villaggi e clan. Padre Giuseppe Fumagalli è sul posto del 1968 e dice che tra i frutti positivi che il cristianesimo ha portato ai suoi felupe c’è anche quello della pace.
“In passato fra i villaggi di questa tribù c’era un perenne stato di inimicizia e di guerra. Si combattevano con archi, frecce e coltellacci, imboscate nelle campagne, si ammazzavano per nulla. I villaggi erano difesi, si viveva nel terrore di assalti notturni. In un’inchiesta fatta nel 1996 sul tema ‘Chiesa-famiglia’, la gente ha discusso ed ha dato risposte. Tutti concordano nel dire che uno dei migliori risultati del cristianesimo è questo: ha fatto superare le antiche inimicizie tra i villaggi e le famiglie. Un’anziana dice che quando lei era bambina, i suoi genitori non la portavano nel villaggio vicino, perchè era considerato nemico. ‘Oggi, dice, i bambini giocano assieme e questo è grazie a Gesù’.
“Un uomo ha testimoniato che nel 1979 e 1981 doveva esserci la guerra tra Edgin e Katòn per problemi di terre e proprietà di palmizi. In passato tra questi due grossi villaggi è corso molto sangue. I cristiani ed i catecumeni dei due villaggi nemici si sono intesi e hanno evitato la guerra. La gente lo sa e dice apertamente che sono stati i cristiani a fare la pace. La cappella di Kassolòl è stata costruita sul campo di battaglia tradizionale. Il terreno è stato concesso perchè, hanno detto i capi (non cristiani), ‘chi va con i preti non fa più la guerra, siamo tutti fratelli'”.
LA SFIDA PER I GIOVANI SONO OGGI I POPOLI POVERI
“All’inizio del nuovo secolo – dice ancora il messaggio del Papa per la giornata della pace 1998 – la povertà di miliardi di uomini e donne è la questione che più di ogni altra interpella la nostra coscienza umana e cristiana”.
La sfida è la solidarietà a livello mondiale. Ecco l’ideale a cui educare i nostri giovani, per dare loro un forte programma di vita. Oggi i giovani non sanno più cos’è la fame, la guerra, la dittatura, la miseria; hanno tutto, ricevono tutto gratis, spesso ignorano cosa vuol dire sacrificio, mortificazione, rinunzia, impegno accettando le sofferenze che vi sono congiunte.
Ci lamentiamo che mancano di ideali: è inevitabile! Bisogna dare loro il grande ideale dell’umanità come unica famiglia, l’ideale di costruire un mondo in cui tutti siamo fratelli.
Nel 1982 il “Comitato ecclesiale contro la fame nel mondo” lanciava lo slogan “Contro la fame cambia la vita”: se vuoi essere veramente fratello dei poveri, non basta protestare contro i “poteri forti” del mondo (che sostengono il nostro egoismo, il nostro modello di vita!), non basta aiutare economicamente e perdonare il debito esterno; devi cambiare la tua vita, il tuo “modello di vita” personale, familiare, sociale. Questo significa:
– rinunzia al superfluo, allo spreco, per aiutare i poveri;
– educazione all’altro, ai popoli altri, sentirli come fratelli;
– impegno anche politico per cambiare le regole del gioco fra ricchi e poveri del mondo, anche qui, con il metodo evangelico della “non violenza”, ma anche proponendo in modo concreto soluzioni alternative;
– disponibilità a donare la propria vita per un ideale di giustizia e di solidarietà universale, che coincide con la missione della Chiesa. La Chiesa non ha aspettato l’Onu o la Fao per interessarsi, in modo fattivo, dei poveri del mondo. Per il nostro Occidente cristiano (o post-cristiano, come si dice) i missionari rappresentano oggi il modello di come gettare ponti di comprensione e di aiuto fra ricchi e poveri del mondo.
La nostra vita di cristiani deve testimoniare la pace di Cristo, l’amore e il perdono di Dio, l’Alleanza col Signore: dobbiamo essere uomini e donne di pace, “operatori di pace” secondo le Beatitudini (Matt 5, 9). Gesù proclama: “Beati gli operatori di pace” (Matt 5, 9). L’impegno per la pace è prioritario per ogni cristiano, proprio in senso religioso: come adesione al piano di Dio sull’umanità e salvaguardia dell’uomo. Due impegni per la pace, uno interno e l’altro esterno:
A) L’impegno interno è di essere in grazia di Dio.
Se la pace è un dono di Dio, se la vera pace è Cristo, non è possibile, nel concetto cristiano di pace, essere un uomo di pace se nella nostra vita c’è il peccato, cioè il rifiuto di Dio. Noi portiamo la pace di Cristo, non una pace qualunque, perchè sappiamo che solo Cristo ci dà la vera pace.
Per essere uomini di pace dobbiamo quindi osservare i Dieci Comandamenti e vivere le Beatitudini. Riflettendo sulla pace e sulle situazioni di guerra del mondo (guerre lontane e vicine, guerre combattute con le armi e piccole nostre guerre combattute con l’invidia, la gelosia, l’odio, i dispetti), siamo invitati a convertirci a Cristo e al nostro prossimo.
Giovanni Paolo II ha detto che “per volere la pace ci vuole un cuore nuovo”. La pace è dono di Dio: non si raggiunge solo con i giochi diplomatici o la giustizia internazionale o le proteste contro “i poteri forti” (che sono espressione del nostro egoismo) ma con uno spirito di riconciliazione e di perdono, che viene da Dio.
B) Azione per promuovere la pace
L’azione positiva per la pace è multiforme, ha molti aspetti. Vediamone qualcuno a titolo esemplificativo. Paolo VI, iniziando nel 1968 la “Giornata mondiale per la pace”, ha avuto una felice intuizione: ogni anno nel messaggio per questa Giornata, il Papa svolge una catechesi sulla pace, ricordando le condizioni interne ed esterne per la pace: rispetto dei diritti dell’uomo, promozione della donna, rispetto della vita, educazione alla pace, rispetto del creato, libertà democratiche, condanna del razzismo, giustizia sociale, giustizia internazionale, non violenza, amore ai più piccoli, fraternità, solidarietà, “intervento umanitario” anche in altri paesi dove una dittatura schiaccia l’uomo (dottrina sviluppata da Giovanni Paolo II negli ultimi anni a proposito della Bosnia e della Somalia).
Il fondamento di tutto è l’educazione dell’uomo: la pace e lo sviluppo vengono dall’educazione. Ma per educare ci vogliono persone che educhino, che vadano nel terzo mondo a condividere, a lasciarsi educare. Bisogna dire con chiarezza ai giovani, che se vogliono impegnarsi davvero per la pace fra Nord e Sud debbono mettere in programma di dedicare la vita o parte della vita per gettare ponti di comprensione, si scambio di educazione vicendevole fra i popoli: le manifestazioni vanno bene, le proteste anche, ma ci vogliono uomini e donne che diano la loro vita per i poveri, per i popoli abbandonati.
Volontariato cattolico internazionale: oggi ci sono circa 500 volontari italiani all’estero, di fronte a 16.000 missionari, fratelli laici consacrati a vita e suore. Vuol dire che associazioni cattoliche, movimenti, parrocchie, gruppi giovanili, non fanno adeguata informazione su questo punto. Quando si parla di terzo mondo e di poveri, si fanno raccolte di denaro, mostre, proteste: ma intanto diminuiscono le vocazioni missionarie e di volontariato!
Nella “Redemptoris Missio” (n. 79) una frase forte: “Dobbiamo tutti domandarci perchè in varie nazioni, mentre crescono le offerte, minacciano di scomparire le vocazioni missionarie, che danno la vera misura della donazione ai fratelli”.
Abbiamo bisogno di molti giovani e ragazze che vengano con noi missionari, che consacrino la vita, o un periodo della loro vita, ai poveri, vivendoci assieme, amandoli, creando uno scambio e un’educazione vicendevole.
Io lancio questa sera un appello “vocazionale”: voi che siete giovani e quindi ancora liberi nella vostra vita, mettetevi davanti a Dio e donate voi stessi, chiedetegli la grazia di chiamarvi per una vocazione più alta: “Eccomi, Signore, io sono qui, manda me”. Terminiamo la nostra serata con una preghiera: “Signore fai nascere nelle nostre famiglie, nelle nostre parrocchie e associazioni, nella nostra assemblea, delle vocazioni missionarie, religiose e laicali”.
Dobbiamo tornare tutti al Vangelo. Papà e mamma che mi ascoltate: non insegnate ai vostri figli ad essere i primi della classe, a fare carriera, ad accumulare tanti soldi. Insegnategli ad essere buoni, a dare la vita per gli altri.
UU OPERATORE DI PACE: MARCELLO CANDIA
Termino ricordando l’esempio del dott. Marcello Candia (1916-1983), vero operatore di pace, di cui quest’anno ricorre il XX anniversario della morte. Nel 1991 il card. Carlo Maria Martini ha iniziato la sua causa di canonizzazione e l’ha così descritto: “A noi sembra che Marcello Candia possa essere considerato una perla evangelica, un modello di laico impegnato, dedito, coraggioso, capace di prendere sul serio la parola di Gesù, creativo, che ha messo la sua professionalità a servizio degli ultimi. E’ dunque per noi un testimone straordinario, un cristiano esemplare di questa fine del secondo millennio, un modello nel nome del quale vorremmo avviarci verso il terzo millennio, per incominciarlo con speranza”.
Candia era un industriale del ramo chimico, che fin da ragazzo si era impegnato nelle opere di carità e si è poi mantenuto libero dal matrimonio per dedicarsi, da laico, ad aiutare i poveri. Ripeteva spesso: “Chi ha ricevuto molto deve dare molto”. Lui ha dato tutto. A 48 anni, nel 1964, ha venduto le sue industrie ed è venuto con i missionari del Pime nell’Amazzonia brasiliana, donando se stesso e tutti i suoi averi ai poveri dell’Amazzonia brasiliana, fondando molte opere di assistenza e di educazione dei più poveri.
La grandezza di Candia sta nella sua profonda vita di fede e di pietà e nella sua carità. Si definiva “un semplice battezzato”: non apparteneva ad alcuna associazione o movimento ecclesiale; un uomo libero, con una spiritualità profonda ma elementare (pur avendo tre lauree!), che s’è santificato con le preghiere del “Manuale del buon cristiano”. Vedeva veramente nei poveri e nei lebbrosi l’immagine di Cristo: si inginocchiava di fianco a loro, li baciava, amava stare con le persone più umili. Diceva: “Quando sono venuto in Amazzonia, pensavo che il dono più grande che facevo ai poveri erano i miei soldi e le mie capacità professionali. Poi ho capito che in essi ho trovato un tesoro. Non sono io che ho dato qualcosa, ma loro, i poveri, che danno a me”.
Adalucio Calado, rappresentante dei lebbrosi di Marituba, si commuoveva ancora nel 1997 ricordando Marcello. Mi diceva: “Il dottor Candia non solo ci ha aiutati con le opere sanitarie e sociali, ma ci ha voluto bene: in lui vedevamo l’amore di Dio anche per noi lebbrosi, rifiutati da tutti”. Ho chiesto ad Adalucio perchè a Marituba considerano Marcello Candia un santo. “Faceva tutto per amore di Dio, risponde. Non cercava nulla per sè ma tutto i poveri, gli ammalati, noi hanseniani. Era eroico nella sua donazione: lui ricco e colto veniva a spendere la sua vita tra noi che non potevamo dargli nulla in cambio. E non per un motivo umano, altrimenti non avrebbe resistito: ma solo per amore di Dio. Se lui è un uomo così buono, quanto più buono dev’essere Dio!”.
Vent’anni dopo, cos’è rimasto del dottor Candia? Le trenta e più opere che la Fondazione Candia mantiene, ospedali, lebbrosari, asili, scuole, centri sociali nelle baraccopoli e anche due conventi di clausura delle Carmelitane di Firenze voluti da Marcello. Ma soprattutto è rimasto il ricordo vivo di un uomo buono, pregato da molti per ottenere grazie da Dio. Quando Marcello Candia, a Dio piacendo, verrà elevato alla gloria degli altari, sarà un santo tipico del nostro tempo: industriale di successo, ha dimostrato che anche un ricco può diventare un santo. Dal 1946 è stato uno dei primi promotori dei missionari e volontari laici in Italia. Senza dubbio è stato un autentico “operatore di pace” e di solidarietà fra i popoli: ecco un modello e un ideale di vita da presentare ai giovani d’oggi.
La causa di canonizzazione, iniziata nel 1991 e chiusa in diocesi di Milano nel 1994, è quasi giunta al termine del suo cammino. Manca il “miracolo” che confermi la “fama di santità” di cui ha goduto in vita e dopo morte. Marcello è ricordato e pregato in Amazzonia e in Italia. Chi ricevesse grazie per sua intercessione è pregato di segnalarle al postulatore
Conferenza di Padre Gheddo a Milano (2003)
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